www.greciaroma.com

LA LETTERATURA DA TIBERIO A NERONE

«

La letteratura augustea si riferisce agli autori della letteratura latina che operarono durante il regno di Cesare Augusto (27 a.C.–14 d.C.), il primo imperatore romano. Nella storia letteraria della prima parte del XX secolo e nel periodo precedente, la letteratura augustea era considerata, insieme a quella della tarda Repubblica, come l'età d'oro della letteratura latina, un periodo di classicismo stilistico. La maggior parte della letteratura classificata come "Augustea" vede protagonisti autori - Virgilio, Orazio, Properzio, Livio - le cui attività si collocano durante gli anni del II triumvirato, prima che Ottaviano assumesse il titolo di Augusto. A rigor di termini, Ovidio è il poeta la cui opera è più profondamente radicata nel regime augusteo.
»

(Il testo che segue è un brano scritto alla fine dell’Ottocento dallo Studioso Ramorino, e presenta dunque alcuni evidenti arcaismi linguistici)

Considerazioni generali

Banchetto, da un dipinto murario di Pompei

Banchetto, da un dipinto murario di Pompei

Alla mite signoria d’Augusto, ancor velata di forme repubblicane, succedette il ferreo dispotismo degli imperatori, il cui arbitrio valeva per legge. Prima il crudele e corrotto Tiberio ( 14-37), poi il pazzo Caligola (37-41), poi lo sciocco Claudio (41-54), poi il ferocissimo Nerone (54-68) fecero provare ai Romani quanto gravi sul collo dei popoli il giogo della tirannide. La storia ricorda quali fossero le condizioni politiche e sociali di Roma in questo secolo, I poteri del governo raccolti tutti nella persona dell’imperatore; egli capo dell’esercito e governatore delle province, egli investito della potestà tribunizia, egli censore e prefetto dei costumi, egli principe del Senato e per via de’ suoi editti o rescritti, vero legislatore; egli infine capo supremo della religione e de’ suoi sacerdoti. Rimanevano ancora di nome le antiche cariche,i consoli, i pretori, il senato; ma non avevano alcuna autorità e dipendevano in tutto e per tutto dalla volontà del principe.

E quale poteva essere tra generazioni siffatte la cultura e la produttività letteraria? Certo l’età precedente aveva lasciato una bella eredità di cultura specialmente poetica, gli ingegni erano educati, l’amor dello studio diffuso; non possiamo dubitare che se non fossero state dal dispotismo tarpate. le ali all’ingegno, avrebbe potuto anche in quest’età innalzarsi a volo sublime e dar frutti copiosi. Ma sotto così tiranna repressione di ogni libero sentimento, come poteva fiorire la letteratura.

Nella poesia, il cui amore non poteva venir meno così presto, si cercava uno svago dai dolori e dall’ infelicità della vita pubblica; ma per la necessità di badar bene a quel che si dicesse , si sceglievano in generale soggetti frivoli o innocui e si cercava lode dalla maniera di trattarli, la splendidezza della forma divenne lo scopo unico dell’arte, gli applausi degli uditori furono il premio più ambito, dopo che eran venuti meno i protettori coma Lelio, Mecenate, Pollione; e gli applausi si procuravano con un uso da poco introdotto ed ora diffusosi largamente, vo’ dire I’uso della declamazione davanti ad un scelto uditorio. Innumerevole era la turba dei poetuzzi che ogni giorno assordavano dei loro versi i Romani; qual vantaggio poteva aver l’arte da tali guastamestieri, che per ottener applausi , gonfiavano i lor pensieri vani con uno stile pretenzioso e manierato? La decadenza è dunque inevitabile; l’imitazione dei grandi poeti dell’età augustea, degenerando, come suole, in affettazione. e più i vizi riproducendo che i pregi, trarrà l’arte a rovina.

Quanto alla prosa, erano pur molti ed importanti i fatti da narrare, erano pure gravissime le quistioni che s’imponevano alle menti e domandavano una soluzione; ma che cosa si poteva fare sotto il dispotismo? Molti preferivan tacere ; chi prendeva a scrivere o s’adattava ad adulare i principi travisando anche i fatti in loro servigio, o era obbligato a misurare con grande cautela le sue parole, a nascondere i propri sentimenti con pregiudizio della sincerità e della chiarezza.

Quest’obbligo di cautela ebbe anche il suo effetto buono, ed e di aver costretto gli uomini a un più rigoroso esame di sé stessi, a una minuta analisi dei sentimenti e degli affetti umani, onde la cultura psicologica se ne avvantaggiò. D’altro lato lo studio dell’eleganza congiunto colla necessità d’esser prudenti imponeva una cura grande dello stile; e di qui venne che vi furono in quest’età ancora parecchi scrittori grandi, sebbene la ricercatezza e l’ abitudine del declamare inchiudesse i germi d’ogni decadenza, la quale, già iniziata, per la prosa, nell’età dI Augusto, ora non s’ arresta e scenderà poi precipitosa nei secoli seguenti.

Fedro

Edizione delle Favole di Fedro del 1724
Edizione delle Favole di Fedro del 1724

Sotto l’imperatore Tiberio, sebbene non fosse egli stesso alieno dalla cultura letteraria, e oltre ad aver composto un carme lirico intitolato Conquestio de morte L. Caesaris coltivasse l’arte oratoria ed coltivasse un rigido purismo nell’uso della lingua, nondimeno la musa romana tacque, impaurita dal dispotismo. L’ unico genere poetico coltivato allora fu la favola esopiana, conosciuta benissimo dagli scrittori dei secoli precedenti, e trattata per incidenza da alcuni, ad es. Orazio, con grande maestria, ma ora soltanto coltivata come opera a sé da Fedro.

Era costui greco di origine, e come dice egli stesso (Ill, prol. 17) nato alle falde del monte Pierio in Macedonia, quindi respirò fin da bambino l’aura benefica della cultura greca. Dovette essere schiavo, poi manomesso, perché nei codici egli vi è detto Augusti libertus (Augusto-Tiberio non Ottaviano).

Da alcune allusioni contenute nelle sue favole, si arguisce che egli ebbe a sostenere delle persecuzioni sotto Tiberio e il suo ministro Seiano, il quale gli intentò un processo facendo egli stesso da accusatore, da testimonio e da giudice nel medesimo tempo. La cagione di queste persecuzioni dovette essere qualche libera parola da lui pronunciata o scritta, perché nell’Epilogo del terzo libro dice che si ricorderà sempre della sentenza enniana studiata da ragazzo: Palam mulire plebeio piaculum est (Per un uomo comune esprimere quello che pensa è un azzardo): Qualcuno ha voluto nelle stesse favole trovar tracce di tali impertinenze che avrebbero tirato addosso al poeta l’odio di Seiano, ma è cosa non certa. In ogni modo il poeta, imparato che ebbe a frenar la lingua, visse tranquillo fino a tarda vecchiaia, – Fedro scrisse cinque libri di favole dette da lui stesso Esopiche, perché sono per la più parte una traduzione o un rifacimento delle favole, attribuite ad Esopo Frigio.

Diciamo “per la più parte”; giacché ve ne sono anche di inventate da lui, e non manca qualche aneddoto di storia contemporanea. Noi però non abbiamo pin l’intera raccolta delle favole di Fedro, perché alcuni libri , come secondo e il quinto sono troppo brevi per aver proporzione cogli altri; e poi esistono altre favole, certamente genuine, che non fanno parte dei cinque libri (le cosl dette fabulae novae, 30 di numero, stampate comunemente come appendice ).

Furono dunque rimaneggiate da qualche critico, e in conseguenza di questo lavoro alcune si son perdute. – Rispetto al merito di queste favole, e a notare che non vi mancano i difetti; le bestie parlano ed agiscono non sempre in conformità della loro natura; la riflessione morale che è l’obiettivo principale della favola, non è sempre tale che risponda adeguatamente all’azione rappresentata; ma in compenso v’è molta semplicità e vivacità di racconto, lo stile e chiaro, preciso; la lingua, salvo poche eccezioni, fra cui ad es., l’uso troppo frequente di nomi astratti in luogo dei concreti , e conforme alla pin pura latinità; il verso senario infine è maneggiato con finissima arte, e sebbene molto elaborate scorre nondimeno con grande facilità. 

Fedro esprime in più luoghi Ia fiducia che egli aveva di conseguire L’immortalità; pure i contemporanei e le generazioni successive non dovettero tenerlo in gran conto, perché non è quasi mai ricordato dagli scrittori, e appena una volta Marziale menziona (3, 20, 5) improbi, iocos Phaedri, la quale citazione stessa non adattandosi alle note favole, ha fatto pensare o ad un altro Fedro, o a favole del nostro perdute; e oltre Marziale allude a lui Aviano ricordando (in una epistola a Teodosio) che Fedro aveva in cinque libri raccolto una parte delle favole esopiane. A mezzo il secolo XV un Nicolò Perotti fece una raccolta delle favole di Fedro e così ne diffuse la conoscenza, sieche solo nell’età moderna ottennero quella fama che il poeta si riprometteva.

Poesia drammatica

Affresco pompeiano
Affresco pompeiano

Il teatro seguitava ad essere occupato dai mimi, che nella loro arte avevano raggiunto, per opera principalmente di Pilade e Batillo, una grande perfezione. Erasi introdotta da poco la novità che un solo pantomimo rappresentasse coi gesti le diverse parti del dramma, facendo ad es. prima Atreo, poi Tieste, poi Egisto, prima il furioso Atamante poi Ino spaventata, od anche figurando nello stesso tempo la parte di più personaggi (Prometeo e Vulcano, Giove e Ganimede, Marte e Venere e simili), mentre intanto un coro, accompagnato da numerosa orchestra, cantava le parole corrispondenti.

A questo fine si componevano dei Iibretti (fabulae salticae), in cui i momenti pin solenni del dramma venivano espressi in monologhi lirici, togliendone il soggetto per lo più dalle leggende mitologiche ed eroiche. Anche i più celebri poeti non sdegnarono occuparsi di siffatte composizioni, ottenendone dai mimi largo compenso; Lucano ne scrisse quattordici; Stasio, che aveva ricavato solo sterili applausi dalla sua Tebaide, vendette a caro prezzo una Apave al ballerino Paride.

Tali erano i divertimenti che coi giuochi del circo e con gli spettacoli dei gladiatori, traevano a sé tutta l’attenzione del pubblico di Roma. Quindi a stento reggeva sulle scene il dramma classico; qualche commedia di Plauto o di Terenzio ridotta ad uso della nuova generazione di spettatori; qualche rara togata, come l’Incendio di Afranio; qualcuna delle vecchie tragedie e neppur queste recitate intere, ma le sole cantate (come le arie dei nostri melodrammi) per il gusto che si aveva alla musica e alla danza più che alla recitazione. Dei nuovi drammi solo le tragedie di Pomponio Secondo, uomo consolare dei tempi di Claudio, ebbero l’onore delle scene, e furon Ie ultime; le tragedie e le commedie scritte dopo non furono conosciute che per via di declamazione. nei crocchi degli amici . 

Seneca tragediografo

Edizione delle tragedie di Seneca del 1581
Edizione delle tragedie di Seneca del 1581

È prima di tutte vanno menzionate le tragedie di Seneca, le sole tragedie della letteratura romana pervenute integre sino a noi. Sono nove di numero e s’intitolano: Hercules Furens, Troades (o Hecuba), Phoenissae (o Thebais), Medea, Phaedra (o Hyppolytus), Oedipus, Agamennon, Thyestes ed Hercules Oetaeus. Se ne aggiunge una decima Octavia; ma questa fu composta dopo la morte di Nerone e però non può essere di Seneca, Le altre, nonostante i dubbi sollevati da alcuni critici, è certo che sono tutte dello stesso autore, e niente ripugna a crederle di Seneca il filosofo, essendovi gli stessi pregi e difetti che noteremo ne’ suoi scritti di prosa.

Queste tragedie son tolte per lo più da Sofocle ed Euripide e per alcune di esse si può fare il confronto; dal quale rilevasi facilmente che Seneca non seppe mantenervi quella correttezza di composizione, quelI’unità di azione che trovasi nei suoi modelli; così pure i personaggi non sono ben tratteggiati, fanno dei bei discorsi, ma non a proposito, son mossi da passioni vive sì ma esagerate; v’è troppa retorica , troppo sfoggio di parole, con pregiudizio dell’ arte vera e del sentimento efficace.

Non guardando all’insieme, ma ai particolari, vi sono bellezze; sentenze nobilissime , espressioni felici; il verso poi è fatto molto abilmente con ricca varietà di metri giambici, anapestici, saffici , gliconei , asclepiadei. In generale si scorge un ingegno vivace e potente, ma che non ha saputo vincere i difetti propri del suo tempo. 

Altri poeti tragici

Altro poeta tragico ebbe questo secolo in quel Curiazio Materno a cui Tacito ha innalzato un così bel monumento nel dialogo Degli oratori. Visse sotto Nerone e Vespasiano, uomo atto per la potenza dell’ingegno a ottenere lode di eloquenza, ma preferì coltivar la poesia , e scrisse una Medea, una Thyestes e delle praetextae, Domitius, Cato, non senza liberi sensi e conseguendo non piccola gloria. Alcuni gli attribuiscono anche l’Octavia sopra citata, ma senza sufficienti motivi. Ma oramai nè egli, nè altri poteva trattenere la poesia drammatica dalla completa decadenza, giacché, esclusa dalla scena, essa era destinatai irremissibilmente a perire.

Poesia epica e didattica

Questo genere poetico considerato dai Romani come il più nobile di tutti e il più degno di essere coltivato da chi agognava di aver cinta la chioma della corona d’alloro, ebbe anche in questa età un buon numero di cultori; i quali se non possono ragguagliarsi ai poeti dell’età augustea sono però loro i più vicini. Sta a capo di questa schiera Cesare Germanico, il figlio di Druso e nipote, e figlio adottivo di Tiberio (15 av. C. – 19 d. C.), quello stesso che la storia celebra come uno dei più valorosi guerrieri di questi tempi e vittima infelice dell’invidioso monarca. Orbene alla gloria dell’armi egli aggiunse anche quella della poesia, alla quale se avesse potuto dedicarsi di proposito, per dirla con Ovidio. che dall’ esilio di Tomi gli dedicò i Fasti, sarebbe stato gloria Pieridum summa (Ex. P. IV, 8, 70).

Ci rimane ancora di lui una traduzione dei Fenomeni di Arato (quello stesso poema che già aveva fatto conoscere ai latini M. Cicerone) in 686 esametri,·e due grossi frammenti di più che 230 versi dei Prognostica, dello stesso autore. Questo libro servì molto nelle scuole per apprendervi l’astronomia e la mitologia, ed è questa la ragione per cui si conserva, quantunque abbia subito molte interpolazioni. Dimostra nel suo autore un non comune ingegno poetico e perfetta conoscenza della materia presa a descrivere.

Lucano

Studio per la Morte di Lucano, dipinto di José Garnelo Alda
Studio per la Morte di Lucano, dipinto di José Garnelo Alda

Saltando i regni di Caligola e di Claudio, I’età di Nerone ebbe il suo poema epico-storico nella Pharsalia di Anneo Lucano (39-65 d. C.). Era questi figlio di Anneo Mela, il fratello di. Seneca, nato a Cordova e portato bambino a Roma; studiò sotto la discipline dei più celebri maestri e fu compagno di Persio, seguace come lui della filosofia stoica, Conosciuto Nerone, gli entrò tanto in grazia che chiamatolo da Atene ove s’ era recato per compiere gli studi, lo fece eleggere questore, prima dell’eta voluta dalla legge. Senonché appresso, con suoi versi giovanili, che gli ottenevano straordinari applausi nelle pubbliche sale di declamazione, avendo destato l’invidia di Nerone, questi gli proibì di leggere versi in pubblico. Allora si chiuse tutto nella sua vita privata, attendendo a scrivere.

L’anno 65 prese parte alla congiura di Pisone; scoperto ed arrestato, fu inferiore alla disgrazia, e non dubitò, per la speranza di salvarsi, denunziare sua madre. Condannato a morte, si fece tagliare le vene delle braccia; aveva 26 anni. Scrisse molte cose trattando in versi le leggende troiane (Stazio Silv. 2, 7, 54), il regno dell’ ombre (ibid. 57); compose anche 10 libri Silvarum, una tragedia, Medea, oltre le 14 fabulae salticae sopra ricordate.

A noi pervenne solo la Pharsalia, poema epico in 10 canti, non finito. Ha per argomento la guerra civile fra Cesare e Pompeo, e cominciando dal passaggio del Rubicone, segue passo passo gli avvenimenti secondo l’ordine cronologico fino alla guerra d’Alessandria. Di qui un grave difetto già notate dagli antichi, che videtur historiam composuisse non poema (Serv. Aen. 1, 38!). Del resto animato da sensi di libertà, il poeta si studia di dar massimo rilievo alle figure di Pompeo e di Catone, e vuol dimostrare che insieme con essi è perita per mano di Cesare la libertà e la grandezza di Roma. Terna nobile certo, e Lucano seppe trattarlo con viva pittura di caratteri ponendo in bocca ai suoi personaggi eloquenti discorsi, inserendo bellissime descrizioni; ma abbondano anche i difetti propri del secolo : sentimentalismo esagerato, erudizione inopportuna, declamazioni retoriche. 

All’età di Nerone appartengono ancora:  un elogio del Console Calpurnio Pisone in 260 versi, d’ignoto autore (v. il 1° vol. dei poetae lat. min. del Bakhrens); una versione latina (in qualche parte sommario) dell’Iliade. delta comunemente Homerus latinus, in circa 1070 esametri ben fatti (edits dal Weytingh a Leida 1809); 3° un poemetto didascalico intitolato Aetna in 646 versi, che con tutta probabilità si attribuisce a Lucilio il giovane, amico di Seneca e governatore per alcuni anni della Sicilia (2° vol. del Baehrens); 4° un poemetto didascalico de metris di Cesio Basso che fu anche uno dei poeti lirici.

In età così guasta di costumi non poteva mancare la satira; anzi fu il genere coltivato con più successo e originalità. Primo ci si presenta fra i satirici di questo secolo 

Persio

Aulo Persio Flacco
Aulo Persio Flacco

A. Persio Flacco (34-62). Nacque a Volterra; perduto il padre quand’era fanciullo, fu da sua madre tenuto alcuni anni in patria, poi condotto a Roma dove fu scolaro del grammatico Remmio Palemone e del retore Verginio Flavo; a 16 anni strinse amicizia con Anneo Cornuto e più non se ne staccò ; visse amico dei più severi e onesti uomini d’allora, Peto Trasea che era marito di sua cognata Arria, Elvidio Prisco ed altri. Fu di costumi dolcissimi, modesto come una donzella, bello d’ aspetto, affettuosissimo verso la madre, la sorella, la zia.

L’ esempio domestico e precetti stoici diedero questo bel risultato. Morì a ventotto anni vitio stomachi, e fu sepolto nella via Appia a otto miglia da Roma. Sei satire lasciò scritte Persio, le quali, ritoccate da Cornuto e da Cesio Basso dopo la morte del poeta, vennero accolte dal pubblico con gran favore, onde Quintiliano scriveva (X, I, 94): multum …. verae gloriae quamvis uno libello Persius meruit. Pieno I’animo di sdegno contro i vizi e le ipocrisie dell’età neroniana, imbevuto dei nobili principi della stoa, Persio cercò colle sue satire di svelare le magagne del suo tempo e di far vedere come non possa essere veramente libero e felice l’uomo fin che rimane schiavo delle sue passioni, e non ha conseguito colla conoscenza e colla padronanza di sé stesso la vera saviezza, questo e particolarmente I’argomento della satira 5, dove si contiene anche uno splendido elogio di Cornuto: ma ugual sentimento spira in tutte le satire.

Nelle quali non risparmiò lo stesso Nerone, sferzando la sua mania poetica e la presuntuosa fiducia con cui aveva assunto le redini del governo, senza esaminare se fosse uomo da tanto. È a dolere che le frequenti allusioni a fatti e persone contemporanee, I’artificio dello stile per cui si vanno cercando immagini e tropi fuori dell’uso comune, e un cotal difetto di abilità nel maneggio della forma, generino spesso oscurità; donde segue che queste satire sono meno pregiate e lette di quel che meriterebbero; perché se non vi e l’impeto di Lucilio ne la ftna urbanità di Orazio, v’è un nobile sdegno contro ogni cosa turpe, e una severa e ammirevole idealità.

L’Apocolocintosi di Seneca

Le satire di Persio seguono la maniera di Lucilio e di Orazio; nell’età di Nerone fu pure coltivata la satira menippea della maniera seguita da Ennio e Varrone; a questo genere appartengono l’Apocolocintosi di Seneca e il Satyricon di Petronio. La Apocolocintosi (parola foggiata a somiglianza di Apoteosi, come a dire inzuccamento, o mutazione in zucca); è il titolo dato da Seneca stesso, secondo testifica Dione Cassio, ma nei codici e sostituito da quest’ altro: Divi Claudii Apotheosis A. Senecae per saturam) è una mordace satira contro l’Imperatore Claudio, scritta poco dopo la sua morte; vi si finge che Claudio presentatosi davanti agli Dei per entrare nel loro numero, sia da loro cacciato in inferno, dove il giudice Eaco lo condanna a giocare perpetuamente ai dadi con un bossolo forato. Questo lavoro è scritto parte in prosa, parte in versi; si è sollevato il dubbio se sia veramente opera di Seneca il filosofo; né il pensiero ne la metrica ripugnano al far di Seneca; ma spiace I’ idea che abbia potuto essere così feroce contro Claudio morto, chi piaggiava vilmente Nerone vivo.

Satyricon

Una scena del film Fellini Satyricon, 1969
Una scena del film Fellini Satyricon, 1969

Il Satyricon di Petronio Arbitro era una specie di romanzo, in 20 libri, nel quale si raccontavano varie avventure di viaggio; a noi rimane solo un certo numero di frammenti, dove un Iiberto Encolpio narra di un suo viaggio in compagnia di Ascilto e Giltone nell’Italia inferiore; fra gli altri aneddoti pin o meno interessanti, il racconto più notevole è quello della cena Trimalchionis, vivacissima descrizione di un sontuoso convito offerto ai suoi amici da questo Trimalcione, un ricco di ignobili natali; frammento questo che fu scoperto solo verso la metà del XVII secolo in un manoscritto di Trau in Dalmazia, e pubblicato per la prima volta a Padova nel 1664.

Le allusioni satiriche a persone del tempo di Caligola e di Nerone e la mescolanza di prosa e versi accostano questo componimento al genere delle Menippee. E poi esso massimamente pregevole per la magistrale pittura dei caratteri, e per il maneggio della lingua, la quale assume aspetto diverso secondo le persone, or colta e ricercata, or infarcita di proverbi, di strane metafore, di idiotismi, di grecismi. Dei passi poetici son degni di menzione 65 senari sulla Troiae halosis (c. 88) e 285 esametri sul bellum civile (c. 119- 124), l’uno e l’altro scritti con intenzione di parodiare le poesie di Nerone e di Lucano, senza che questi però siano mai nominati.

Sulla persona di Petronio si è disputato da molti, essendo dubbio se sia egli, o non sia, quel C. Petronio di cui parla Tacito nel sedicesimo libro degli annali (c. 18); se e lui l’ autore delle satire, sarebbe vissuto al tempo di Nerone, ministro dei suoi capricci, arbiter elegantiae, come dice Tacito, e non immune dai più turpi vizi; avrebbe però mostrato attitudine negli affari reggendo il proconsolato della Bitinia e il consolato; caduto in disgrazia del principe avrebbe dovuto darsi la morte (66 d. C.) insieme con Anneo Mela (il padre di Lucano), Ceriale Anicio, Rullo Crispino e altri. Certo nessuno di questi dati ripugna all’ autore del Satyricon.  

Gli storici 

Molto diverse erano le condizioni della storiografia in quest’età da quelle dei tempi repubblicani. Non più grandiose lotte di partiti politici, discordie di consoli con tribunl, popolari concioni a sostegno o ad opposizione di importanti progetti di legge, erano oggetto della storia, ma gli atti tirannici d’un solo, le delazioni, le condanne, il vile protrarsi dei senatori, le opposizioni troncate col sangue. Anche le guerre avevano mutato natura; ohe alle grandi conquiste erano succedute le guerre di difesa, onde minor varietà di racconti, di descrizioni, maggior difficoltà di tener desta l’attenzione del lettore.

Chi voleva ritrovare le ragioni dei fatti storici doveva integrarsi nella reggia, e tra le passioni del principe e dei liberti, in mezzo ai pettegolezzi della corte rintracciare spesso l’ origine delle più gravi deliberazioni. Poi fra le strette del dispotismo quale poteva essere la libertà dello scrlttore? E in tanta corruzione di costumi come poteva egli distribuire secondo ragione la lode e il biasimo senza incorrere nella malevolenza e nell’odio? Aggiungi che era molto più difficile mantenere l’animo libero da pregiudizi politici, da privati affetti, e dagli altri motivi onde suol essere turbata l’imparziale serenità dello storico. Per tutte queste ragioni il compito di scrivere storie si rendeva sempre più difficile, ed esigeva grande ingegno e grande animo. 

Volendo passare in rassegna questi storici, sia ricordato per primo quel Cremuzio Cordo che mantenne liberi sensi sotto la tirannide, e per aver scritto nei suoi annali che Cassio era stato l’ultimo dei Romani, dovette darsi la morte, e i suoi libri furono bruciati per ordine del Senato. Dopo lui e dopo Aufidio Basso, autore di libri sulla guerra germanica e di altri sulle cose di Roma, cil si presenta Velleio Patercolo, guerriero dei tempi di Tiberio che, oltre a parecchie cariche militari, ebbe gli onori della questura e della pretura. Scrisse costui un compendio di storia romana in due libri, di cui il primo ci giunse assai mutilato in principio. L’opera fu composta l’ anno 30 d. C., e dedicata al console di quell’ anno M. Vinicio. Esposti rapidamente nel primo libro i fatti anteriori alla caduta di Cartagine, si continua nel secondo la narrazione fino alla morte di Livia, madre di Tiberio, avvenuta nel 29.

È narrazione fatta senza ombra di critica, con riguardo soprattutto ai caratteri, di cui alcuni sono tratteggiati molto bene, non senza un certo interesse alla storia della letteratura, per cui vi si legge l’elogio di Omero, di Esiodo, di Cicerone. La lingua è ancora classica nella scelta delle parole, ma è tronfio e declamatorio lo stile. Ai membri della casa imperiale, e massime a Tiberio, sono rivolte in fin dell’opera le più stomachevoli adulazioni, Ma è da notare che il libro fu scritto prima che Tiberio si abbandonasse ai suoi crudeli istinti.

Fu dello stesso tempo Valerio Massimo, autore di un’opera intitolata: Factorum et dictorum memorabilium libri novem. Costui era amico di Sesto Pompeo il console dell’ anno 14 d. C. e lo accompagnò nel suo viaggio in Asia. Compose la sua opera sotto il regno di Tiberio, il quale egli adulava vilmente insieme coi membri della famiglia, senza aver nessuna ragione di farlo come Velleio Patercolo.

L’opera consiste in una raccolta di aneddoti ordinati secondo determinati concetti, e quindi divisi in capitoli de religione, auspiicis, somniis, de institutis antiquis, de disciplina militari, de maiestate, de patientia, de his qui humili loco nati clari evaserunt, ecc.

Gli esempi sono parte romani, parte forestieri, ma i primi prevalgono. I materiali son tolti da molti autori, specialmente da Livio, Pompeo Trogo ed altri; ma senza eritica, senza discernimento, e con l’evidente proposito di fare inarcare le ciglia ai lettori. Era opera destinate probabilmente alle scuole dei retori; e si vede anche dallo stile che è ampolloso e declamatorio.

Pure quest’opera ebbe molti lettori nei secoli seguenti appunto per la sua natura aneddotica, e fu anche da parecchi ridotta a epitome. Ne son pubblicati due, uno di Giulio Paride: del quinto secolo di C., il quale parla anzi di 10 libri di Valerio anziché di soli 9, ed ha conservato alcune parti che nei manoscritti di Valerio s’erano perdute, l’ altro e di Gennaro Nepoziano.

Venendo ai tempi dell’ Imperatore Claudio ci si presenta fra la schiera degli storici Q. Curzio Rufo con suoi 10 libri historiarum Alexandri Magni, dei quali i due primi non sono a noi pervenuti. Che quest’opera sia dei tempi di Claudio, rilevasi da un passo del libro decimo (9, 36) dove si allude manifestamente alla successione di Claudio dopo l’uccisione di Caligola. Del resto non si sa altro della vita di Curzio; forse è da identificare il nostro storico col Q. Curzio Rufo che Svetonio menzionava tra i retori dopo M. Porcio Latrone.

La storia di Alessandro Magno è ricavata dalle migliori fonti greche, come Clitarco, Timagene, Diodoro ed altri, e anche dalle Filippiche di Pompeo Trogo; di queste fonti Curzio si servì non senza discernimento. Il suo scopo però non fu di esporre con severa critica i fatti di Alessandro; egli voleva raccontarli in guisa da far impressione sui lettori, quindi l’importanza che egli da ad aneddoti di valore affatto secondario: di qui pure il suo fare retorico e la lingua spesso ricercata e poetica, sicché la sua opera è piuttosto un piacevole romanzo storico che vera storia.

La filosofia

Nerone e Seneca. Eduardo Barrón González,1904. Museo de Zamora
Nerone e Seneca. Eduardo Barrón González,1904. Museo de Zamora

Nobile compito aveva nel primo secolo dell’era volgare la filosofia; essa sola poteva dar qualche conforto agli animi dei Romani accasciatl e gementi sotto il dispotismo, e in tanto trionfo di ogni maniera di vizi, essa sola poteva additare un ideale di moralità alquanto più elevate e richiamare gli uomini a riflettere sopra se stessi e trovare in sé, nella disarmonia e schiavitu interiore, la cagion prima d’ogni infelicità.

Però nessuna meraviglia che molti I’abbiano studiata e seguita e nella vita e negli scritti, specialmente la filosofia stoica, che rispondeva meglio ai bisogni del tempo. Vedemmo come Lucano e Persio fossero ispirati a questa dottrina; da essa furon guidati gli uomini migliori del secolo, un Peto Trasea, un Barea Sorano, un Elvidio Prisco e simili ; se ne scrisse eziandio e in greco e in latino.

Già Sestio aveva preso a scrivere in greco di cose stoiche; il suo esempio fu seguito ora anche da Anneo Cornuto, il maestro di Persio, di cui esiste un opuscolo, e che fu anche autore di scritti retorici e grammatici parte in greco parte in latino. In greco scrissero anche C. Musonio Ruro, di cui un manuale su questioni di vita pratica molto ha conservato Stobeo nel suo florilegio; e il famoso Epitteto di Ierapoli vissuto nella metà del primo secolo e alla fine, del secondo dell’era volgare. Usarono invece la lingua latina, dopo Papirio Fabiano, Cornelio Celso autore di una raccolta di dottrine di tutte le scuole filosofiche, un Plauto ricordato da Quintiliano, e altri ancora, fra cui il pin celebre e L. Anneo Seneca, del quale dobbiamo dir qualche parola.

Nato a Cordova verso il 4 a. C.. fu presto da suo padre, Seneca il retore, condotto a Roma ed ivi istruito. Cominciò ad essere conosciuto per i pregi dell’ingegno sotto Tiberio, ed era già avvocato famoso al tempo di Caligola, al quale essendo dispiaciuto un suo discorso, corse rischio di esser condannato a morire, ma essendosi detto all’Imperatore che egli malaticcio com’era, non avrebbe tardato a soccombere, fu salvo. L’anno 41 fu da Claudio mandate in esilio nell’ isola di Corsica, sotto l’imputazione di aver amato Giulia Livilla, sua nipote. Dopo otto anni per intercessione di Agrippina fu richiamato e affidatagli l’educazione del giovane Nerone.

Seneca assunse con impegno la non facile impresa, e seppe così ben entrare nelle grazie del discepolo, che questi gli si serbò amico anche quando fu imperatore, e lo colmò di doni. Però negli ultimi anni prese ad averlo in uggia; Seneca, avvistosene, si ritirò a vita privata attendendo agli studi. Pure non poté sfuggire alla crudeltà di Nerone che, scoppiata la congiura di Pisone, se ne approfittò per dargli l’ordine di morire. Seneca morì con dignità (65 d. C.) e non smentendo gli insegnamenti dati in vita e lasciati scritti nei suoi libri.

L’aver Seneca ottenuto sotto Nerone grande potenza e grandi ricchezze fu cagione che molti lo abbiano giudicato molto severamente, notando un’aperta contraddizione tra le azioni e i precetti di lui, ad esempio, Dione Cassio; ma Tacito ne parla con più rispetto, e lo ha capito meglio. Invero Seneca sebbene si sia arricchito, non fu mai schiavo delle ricchezze; sebbene potente, non abusò della sua forza. Questo può dirsi, che non sconsigliò Nerone da azioni vili, per es. dal parricidio, condiscendenze biasimevoli certo, ma giustificate in parte dalla necessità di evitare mali peggiori.

Gli scritti di Seneca a noi pervenuti, oltre le tragedie, e l’Apocolochintosi di cui già parlammo sono: 1. I Dialogorum libri Xll: comprendono parecchie opere: a) Un libro De Providentia dove si cerca conciliare l’esistenza del male colla bontà divina; b) De constantia sapientis ossia nec iniuriam nec contumeliam accipere sapientem; c) tre libri De ira, dove questa passione è studiata con molta finezza e s additano i rimedi da praticarsi per vincerla; d) ad Marciam de consolatione, dove si consola costei (figlia di Cremuzio Cordo) “per la morte di un figliuolo; e di una figlia beata, ove si ricerca, in che consista e come si consegua la felicità” f) de Otio, opuscolo pervenutoci monco al principio e al fine; g) de tranquillitate animi, ove si insegna come possa il sapiente raggiungere quella quiete a cui aspira anche in mezzo alle agitazioni della vita; h) De brevitate vitae, dimostra che la vita non e breve per chi sa far buon uso del tempo; i) ad Polybium de consolatione, scritto in apparenza per consolar Polibio, liberto di Claudio, della morte di un fratello, in sostanza per commuovere lui e l’imperatore e farsi richiamare dall’esilio; composto per conseguenza in Corsica, e non rifuggente da adulazioni vili; j) ad Helviam matrem de consolatione, scritto anche questo dall’esilio per consolare sua madre della propria lontananza, Questi opuscoli sono tutti raccolti colla denominazione di dialoghi, perché, alla maniera degli Stoici, il filosofo parla come se avesse davanti a sé un interlocutore e gli fa muovere delle obiezioni, a cui egli risponde.

Seguono poi altre opere; 2 De clementia, due libri; il secondo non è intero; furono indirizzati a Nerone per dargli buoni consigli nei primi anni del suo regno; così ne avesse approfittato! 3. De beneficiis 7 libri, ove la questione della gratitudine è trattata con grande competenza e compiutezza; 4. Naturalium quaestionum libri Vll, trattato di cosmologia e di fisica secondo le dottrine stoiche, ma intrecciandovisi molte considerazioni morali; serviva di testo nel medioevo per lo studio della fisica; 5. Epistulae morales ad Lucilium; sono 20 libri, in tutto 124 lettere (però Gellio cita un 22˚ libro, dunque alcune si son perdute) dirette a Lucilio procuratore della Sicilia; opera senile e che l’autore non pole pubblicare che in parte; vi si trattano varii argomenti, ma quasi tutti di morale, con originalità di vedute e finissima analisi del cuore umano. Esiste ancora un carteggio tra Seneca e S. Paolo, in rapporto con la tradizione creudita nel medio evo che vi fosse tra loro amicizia; ma la tradizione è falsa sicuramente, e le lettere sono opera di qualche inetto scrittore cristiano.

Invece molte opere genuine di Seneca si son perdute, sia di filosofia naturale (de motu terrarum, de lapidum natura, de situ Indiae, de situ et sacris Aegyptiorum, de forma mundi) sia di morale (Exhortationes de officiis, de immatura morte, de superatitione, de matrimonio, moralia philosophiae libri, de pauperitate). Rimangono frammenti notevoli di uno scritto de remediis fortuitorum, che fu il fondamento dell’opera del nostro Petrarca, intitolata de remediis utriusque fortunae. Aveva pure scritto una biografia di suo padre, un elogio di Messalina, delle orazioni per Nerone, parecchi libri di lettere a Novato e Cesonio Massimo; tutto ciò è perduto. Ma quel che rimane basta a farci capire la mente di Seneca. Era un ingegno forte e brillante, immaginoso e profondo ad un tempo, inclinato da una parte a cercare lo splendor della forma e l’applauso delle moltitudini, dall’altra educato a severo pensare.

Di qui i suoi pregi e i suoi difetti: conoscenza del cuore umano ne’ suoi più riposti angoli, e felice, energica espressione dei fatti psichici, ma soverchio bagliore di forma, amor di antitesi, di paragoni, di metafore, tipo dei vizi di quel secolo. In filosofia non fu esclusivamente stoico; ma seppe lasciar da banda le esagerazioni e i paradossi, e pigliare anche da altre scuole il buono che avevano, secondo la maniera romana ispirata da buon senso e da coscienza più viva dell’esigenze della vita.

(Da Letteratura Romana di Felice Ramorino, 1886)

»

L'Oriente ora reclamava un imperatore e il 1° luglio del 69 i soldati impegnati nella guerra contro i Giudei in rivolta proclamano imperatore il loro comandante, Tito Flavio Vespasiano. Questi lasciò la conduzione della guerra al figlio Tito e giunse a Roma nel 70. Qui rovesciò e mise a morte Vitellio. Nel corso di questa lotta il Campidoglio fu incendiato. Lo restaurò, ricostruendo anche gran parte della città. Nella sua vita Vespasiano fu un uomo semplice, mettendo in ombra il lusso e la stravaganza dei nobili e provocando un netto miglioramento del tono generale della società. Rimosse dal Senato molti membri corrotti, sostituendoli con uomini capaci, tra cui Agricola. Nel 70 sedò una formidabile ribellione in Gallia; e suo figlio Tito tornò a Roma dopo aver preso Gerusalemme, la cui fu conquista nel 70, dopo un assedio di diversi mesi, provocò diversi orrori che furono descritti dallo storico ebreo Giuseppe Flavio che era presente ai fatti. La città fu distrutta e gli abitanti venduti come schiavi). Il Tempio di Giano fu chiuso e la pace prevalse durante il resto del suo regno. Furono spesi molti soldi per opere pubbliche e per abbellire la città. Fu costruito un nuovo Foro, un Tempio della Pace, bagni pubblici e fu iniziato il famoso Colosseo, il cui nome deriva dal Colosso, una statua di Nerone che si trovava nelle vicinanze. Nel complesso, Vespasiano fu attivo e prudente negli affari pubblici, frugale e virtuoso nella vita privata. Il decennio del suo regno fu segnato dalla pace e dalla prosperità generale. Uno degli uomini più abili di quest'epoca fu Agricola (37-93). Nato a Forum Julii, in Gallia, fu nominato governatore dell'Aquitania da Vespasiano nel 73. Quattro anni dopo fu console e l'anno successivo fu inviato in Britannia, che conquistò e governò con grande abilità e moderazione, aumentando la prosperità del popolo e facendo progredire la sua civiltà. Rimase in Gran Bretagna fino all'85, quando fu richiamato. La sua vita fu scritta dal genero, lo storico Tacito.

»

 

POST CORRELATI