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DA ONORIO A VALENTINIANO III: IL SACCO DI ROMA

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Teodosio I (11 gennaio 347 – 17 gennaio 395), chiamato anche Teodosio il Grande, fu imperatore romano dal 379 al 395. Era un generale dell'esercito romano e figlio di un altro generale, Teodosio il Vecchio. Quando l'imperatore Valente morì in battaglia combattendo contro i Goti, il nipote di Valente, l'imperatore Graziano, nominò Teodosio come Augusto. Teodosio sposò la sorella di Graziano e vinse tre guerre civili durante il suo regno. Graziano e suo fratello, l'imperatore Valentiniano II, morirono entrambi giovani e Teodosio nominò suoi successori i suoi figli Arcadio e Onorio. Teodosio fece del cristianesimo la religione di stato ufficiale dell'Impero Romano e rese illegali le altre religioni.
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Con la  morte di Teodosio i due imperi, orientale ed occidentale, sono di fatto separati e ciascuno tiene e segna un suo proprio corso nella storia. Teodosio è l’ultimo degli imperatori romani che, sia conducendo gli eserciti in campo, sia governando secondo suo pensiero, abbia veramente e fortemente retto ed amministrato l’impero. I suoi successori non governarono più ma furono governati, perché si affidarono interamente ai loro generali e ai ministri, che il più delle volte erano barbari di recente ammessi nei gradi dell’impero. Il concetto, già da altri imperatori accennato, di incorporare le genti barbariche nello stato romano, fu da Teodosio portato a compimento. Egli infatti, con gli stanziamenti dei Goti in più luoghi delle provincie orientali e con la loro ammissione negli eserciti come federati, pensò di porre le forze barbariche a servizio dell’impero, ma invece ne affrettò la rovina.

Le nazioni barbariche presto sopraffecero l’esausta stirpe latina, i generali stranieri divennero ministri protettori ed arbitri dell’impero, la potestà solo nominalmente restava agli imperatori, ma questa stessa potestà viene pur essa restringendosi in sempre più brevi confini; si staccano man mano le provincie che si compongono in nuovi stati, il potere imperiale si riduce nel solo dominio dell’Italia e in ultimo anche qui viene abbattuto. L’impero occidentale verrà distrutto e con la sua caduta si è soliti considerare chiuso il corso della storia antica.

Onorio (395-423)

L'imperatore Onorio, opera di Jean-Paul Laurens, 1880
L’imperatore Onorio, opera di Jean-Paul Laurens, 1880

Quando i figli di Teodosio furono innalzati a imperatori, Arcadio, il più grande, aveva diciotto anni, Onorio invece undici. Per gestire il governo nell’oriente il primo era affiancato dal prefetto Rufino, per il secondo in occidente c’era il generale vandalo Stilicone imparentato con famiglia imperiale per il suo matrimonio con Serena, nipote di Teodosio e più tardi poi per un nuovo vincolo delle nozze di sua figlia Maria con Onorio imperatore. Il V secolo si apre con nuovo irrompere di barbari non più nei confini dell’impero, ma direttamente in Italia, minacciando Roma. Alarico capo dei Visigoti, che aveva militato negli eserciti di Teodosio con molto merito per ingegno e valore, giovandosi delle rivalità insorte fra i due ministri Stilicone e Rutino, i reggenti dei due imperatori, si era ribellato e acclamato re da suoi era corso a devastare la Macedonia e la Grecia nel 396.

Stilicone

A frenare le rapine degli invasori, Stilicone portò gli eserciti nel Peloponneso e costrinse Alarico a ritirarsi dall’Elide e dall’Arcadia, verso il golfo di Corinto.

Thomas Hodgkin, storico e biografo britannico, fa il seguente suggestivo paragone: “Stilicone [e altri come lui] erano i prototipi degli ufficiali tedeschi e inglesi che nell’Ottocento hanno riorganizzato gli eserciti o comandato le flotte del Sultano e guidato le spedizioni del Khedive”.

Ma le ben cominciate imprese, furono interrotte dalle invidie e dalle gelosie dei ministri di Arcadio, che per allontanare il troppo temuto Stilicone dagli stati orientali, fecero un trattato di pace e di alleanza con Alarico che ottenne il grado di mastro generale dell’Illiria orientale.

Stilicone per evitare guerra civile, si ritrasse innanzi al nuovo alleato dell’imperatore bizantino nel 397. Nella nuova sede del suo governo a cavallo fra i due imperi, Alarico accrebbe la sua potenza, formò il disegno e compi i preparativi per passare ad invadere l’Italia.

Sul finire del 402 valicò le Alpi orientali e rapidamente avanzò sopra Milano, residenza imperiale, prima che Stilicone avesse potuto raccogliere un buon esercito da opporgli.  L’imperatore Onorio lasciò la sua sede e si ridusse a Ravenna, che era una città per la sua posizione, in mezzo ad acque e paludi e per le opere di difesa, ritenuta inespugnabile.

Ravenna divenne allora e continuò per qualche secolo ad essere sede del governo d’Italia. Alarico che forse aveva sperato di sorprendere l’imperatore, fallì quindi nel suo intento e mentre gli eserciti che Stilicone aveva chiamati dalle Gallie e dalla Rezia stavano crescendo sempre più,  si tenne a lungo sulle difensive. Successivamente avanzò di nuovo verso la Liguria e venne affrontato da Stilicone presso Pollenzo (Pollentia) sul Tanaro, a sud ovest di Alba. Qui, il giorno di Pasqua, il 6 di aprile del 403, si combatté un’accanita battaglia che terminò con la vittoria delle armi romane. 

Battaglia di Pollenzo (403)

La battaglia di Pollenzo
La battaglia di Pollenzo

Alarico fu costretto a ritirarsi verso l’Adige, ma raggiunto dal vincitore nei dintorni di Verona, fu sconfitto in una nuova battaglia sconfitto e allora, accettando condizioni di pace, si ritirò nell’Illirico. Roma, che aveva temuto di vedere i Visigoti invasori giungere sotto le sue mura e con nuove opere di difesa aveva rafforzato la cerchia di Aureliano, acclamò Stilicone come salvatore.

Per festeggiare la liberazione dell’Italia, giunto a Roma l’imperatore Onorio, furono date grandi feste e spettacoli di gladiatori , ma questo fu l’ultimo esempio di tale disumano svago. Nel 404 nell’arena del Colosseo, mentre i gladiatori combattevano, Telemaco monaco cristiano, si lanciò fra loro per dividerli. Il popolo mosso a furore, lapidò il generoso monaco, ma il suo sangue non fu sparso invano, perché Onorio con un editto proibì per sempre i combattimenti gladiatori.

Non era ancora cessata l’esultanza per la sconfitta gotica, ed ecco nuovo pericolo si preparava a nord: l’invasione e le continue guerre degli Unni avevano spinto fino ai confini danubiani orde di popoli in fuga che, incalzati, forzavano le frontiere e invadevano l’impero. 

L’ultimo trionfo a Roma (404)

L’imperatore Onorio, che aveva tentato di fuggire in Gallia, fu sorpreso da Alarico e, rifugiatosi nella città fortificata di Asta, fu assediato fino all’arrivo del coraggioso Stilicone, che attaccò gli assedianti e dopo un sanguinoso combattimento, li sbaragliò completamente.

Un terribile pericolo era stato scongiurato. Tutta l’Italia esplose in espressioni di gratitudine e di gioia. Vennero ricordati i giorni dei Cimbri e dei Teutoni e il nome di Stilicone fu pronunciato insieme a quello di Mario. Un magnifico trionfo a Roma celebrò la vittoria e la liberazione. Il giovane Onorio e il suo fedele generale Stilicone cavalcarono fianco a fianco sul carro imperiale. Fu l’ultimo trionfo che Roma vide. Per trecento volte – si dice che sia questo il numero – la città imperiale aveva assistito alla processione trionfale dei suoi generali vittoriosi, celebrando conquiste in tutte le parti del mondo.

L’ultimo combattimento gladiatorio dell’anfiteatro

Lo stesso anno che segna l’ultimo trionfo militare a Roma segna anche l’ultimo combattimento gladiatorio nell’anfiteatro romano. È al cristianesimo che si deve interamente, o quasi, il merito della soppressione di queste esibizioni disumane dell’anfiteatro. I filosofi pagani le consideravano di solito con indifferenza, raramente con riprovazione, spesso con favore.

Così Plinio elogia un amico per aver dato un intrattenimento allegro al funerale di sua moglie proprio con questo genere di spettacoli. E quando i moralisti pagani condannavano i giochi gladiatori, era piuttosto per altre ragioni e tanto non per il fatto che li consideravano disumani e assolutamente contrari alle regole dell’etica.

Venivano difesi perché promuovevano lo spirito marziale tra il popolo e abituavano il soldato alle immagini che avrebbe visto nel campo di battaglia. Per questo motivo i giochi gladiatori venivano effettivamente mostrati alle legioni prima che esse partissero per le loro campagne.

In effetti, sembra che tutte le classi sociali considerassero la questione più o meno nella stessa luce e con la stessa assenza di disapprovazione morale, con cui noi stessi consideriamo la macellazione degli animali.

Ma i padri cristiani denunciarono i combattimenti come assolutamente immorali e si adoperarono in ogni modo possibile per creare un’opinione pubblica contraria.

I membri del loro stesso corpo che assistevano agli spettacoli furono scomunicati.

Alla fine, nel 325, Costantino emanò il primo editto imperiale contro questi ludi. Il decreto in questione sembra essere stato tuttavia poco rispettato, ma legalmente, da questo momento in poi le esibizioni, furono in qualche modo bandite, finché la loro definitiva abolizione fu causata da un incidente successo durante i giochi che chiudevano il trionfo di Onorio.

Nel bel mezzo dell’esibizione un monaco cristiano, di nome Telemaco, sceso nell’arena, si precipitò tra i combattenti per farli smettere, ma fu ucciso all’istante da una pioggia di proiettili lanciatigli contro dal popolo, irritato per l’interruzione dell’esibizione sportiva.

Seguirono diversi disordini e alla fine, lo stesso Onorio, emise un editto imperiale “che abolì per sempre i sacrifici umani dell’anfiteatro”.

 

Radagaiso

Il generale romano Flavio Stilicone affronta Radagaiso, capo degli Ostrogoti, a Fiesole nel 406 d.c. Xilografia colorata a mano ottocentesca.
Il generale romano Flavio Stilicone affronta Radagaiso, capo degli Ostrogoti, a Fiesole nel 406 d.c. Xilografia colorata a mano ottocentesca.

Le tribù al di là del Reno erano un’immensa moltitudine confusa di Vandali, Svevi, Alani, Burgundi ed Ostrogoti, in numero di duecento mila uomini, condotti da un generale scitico di nome Radagais o Radagais – terribile per il suo impeto selvaggio e la ferocia – valicarono le Alpi centrali, scesero nella valle del Po, nel 405, e devastarono una vasta area del paese. Quindi, valicati gli Appennini, dilagarono per l’Etruria, assediarono Firenze e di là già sparsero il terrore della loro venuta fino a Roma.

L’allarme che suscitarono tra gli Italici fu ancora maggiore di quello suscitato dall’invasione gotica; Alarico, infatti, era cristiano, mentre Radagaiso, il capo delle nuove orde, era un selvaggio superstizioso, che tributava il culto a divinità che richiedevano il sacrificio cruento dei nemici prigionieri.

Con gli stessi sforzi profusi da Roma nei giorni più giovani e vigorosi della repubblica, quando Annibale era alle sue porte, un esercito fu ora equipaggiato e posto sotto il comando di Stilicone.

Onorio se ne restava chiuso a Ravenna, mentre Stilicone si accampava presso Pavia, adunando le forze e studiando le mosse del nemico. Firenze oppose forte resistenza e rallentò l’impeto degli invasori, finché Stilicone, raccolti gli eserciti – si stima da 200.000 a 400.000 uomini – venne in soccorso e costrinse Radagais a levare l’assedio, poi lo incalzò esasperandolo con continui assalti, quindi tagliandogli i viveri, finché, a poco a poco, logorandone le forze, senza mai venire ad aperta battaglia, lo costrinse alla resa. Radagaiso, fatto prigioniero, fu ucciso. Un gran numero di barbari, che la spada e la carestia avevano risparmiato, furono venduti come schiavi (406). Un’altra parte dell’esercito sconfitto, riuscì a ritirarsi e a rivalicare le Alpi, da qui poi si sparsero a saccheggiare le contrade della Gallia, da dove essi non poterono più essere cacciati (anno 406 ). Stilicone per una seconda volta fu acclamato liberatore d’Italia.

Richiamate le legioni dalle provincie occidentali per difendere la penisola, i confini dell’impero rimanevano scoperti ed incustoditi, mentre, come abbiamo detto, i residui dell’esercito di Radagaiso si espandevano per la Gallia meridionale fino ai Pirenei e all’Oceano. Intanto nuove schiere di Franchi invadevano le terre sulla sponda sinistra del basso Reno e nello stesso tempo, nel 407, scoppiava una rivolta nella provincia di Britannia. Qui, un soldato dal nome di Flavio Claudio Costantino (poi noto come Costantino III), si faceva acclamare imperatore e portando dall’isola gli eserciti in Gallia, vi si faceva riconoscere sovrano, per estendere poi il proprio dominio sulla Spagna.

Cosi le provincie occidentali si distaccavano dall’impero e intanto Onorio rimaneva rintanato indolente nella ben protetta Ravenna. Nel frattempo, anche l’uomo che finora aveva sorretto il pericolante edificio dell’impero, con ben misera fine, trovò la morte.

Stilicone, infatti, dall’Italia negoziava trattative con Alarico nell’Illiria, pensando di poterlo assicurare come generale dell’impero e col suo aiuto recuperare le già perdute provincie. Ma in Italia, dove tante voci avevano acclamato Stilicone liberatore, cominciò contro di lui una fiera opposizione e una guerra silenziosa.

Dimentichi delle recenti sue imprese, lo accusavano di avere sguarnito i confini dell’impero e lasciate aperte le provincie occidentali alle invasioni barbariche; peggio ancora,  dicevano che egli avesse apposta sollecitato i barbari invasori per acquisire più potere dalla guerra e dai disordini. Gli si attribuivano – e non è chiaro se calunniosamente o con qualche fondamento di verità, ambiziosi disegni di acquisire l’impero per sé o per suo il figlio Eucherio e così a poco a poco lo si rese sospetto e inviso ad Onorio a ciò adoperandosi con perfidia l’invidioso cortigiano Olimpio, ufficiale della guardia imperiale.

Onorio debole e dappoco, accolse tali sospetti ed insinuazioni e da Ravenna si trasferi a Pavia, dove erano raccolte legioni per passare alla guerra in Gallia. Anche nell’esercito si era ormai formato un forte partito avverso a Stilicone. Scoppiò infatti a Pavia una sollevazione militare nella quale gli ufficiali a Stilicone più fedeli, alla presenza dell’imperatore furono tutti uccisi. 

Morte di Stilicone (408)

Assassinio di Stilicone a Ravenna, incisione ottocentesca
Assassinio di Stilicone a Ravenna, incisione ottocentesca

La triste notizia raggiunse Stilicone Bologna: avrebbe forse potuto mettendosi alla testa di sue milizie e movere contro i nemici, ma esitò davanti al pericolo di una guerra civile e cercò salvezza a Ravenna, dove per ordine  di Onorio, fu catturato ed ucciso, il 23 agosto del 408. Cadeva così il grande generale che, con la sua spada e i suoi consigli, aveva salvato due volte Roma dai barbari e che avrebbe potuto scongiurare ancora una volta pericoli analoghi, ormai alle porte.

Alla morte di Stilicone seguì quella di suo figlio Eucherio e la persecuzione dei più potenti fra gli amici e fautori del grande generale dell’impero.

Ascoltando i consigli avventati dei suoi indegni consiglieri, Onorio provocò la rivolta dei 30.000 mercenari goti delle legioni romane con un massacro delle loro mogli e dei loro figli, che furono tenuti in ostaggio nelle varie città d’Italia. 

Molti ufficiali barbarici, I Goti d’oltralpe, insidiati o rimossi dal loro ufficio, fuggirono rifugiandosi nel campo di Alarico in Illiria, Il comandante dei Visigoti non poteva sopportare che i trattati con lui conclusi da Stilicone in nome dell’imperatore non fossero mantenuti e ne chiese l’applicazione con ripetute domande, sempre sdegnosamente respinte dalla corte di Onorio, debole ma improvvidamente orgogliosa.

Alarico, i cui disegni di guerra ebbero maggiore impulso, spinti dalle sollecitazioni che dall’Italia gli mandavano i molti desiderosi di vendicare la morte di Stilicone, move dall’Illiria ed entra in Italia, devastando le contrade transpadane. Passato il Po volge dunque verso a Rimini e di qui per l’Appenino e per la valle del Tevere, senza che nessun esercito lo affronti, si dirige verso Roma. È il 408 d.C. Era dai tempi del temibile Annibale – più di seicento anni prima – che Roma non veniva insidiata dalla presenza di un nemico straniero sotto le sue mura.

Alarico, primo assedio di Roma (408)

Al terribile annunzio dell’avvicinarsi dei barbari, il senato che aspettava invano i soccorsi da Ravenna, delibera per organizzare la resistenza. La città è da Alarico stretta sotto un forte assedio. Mancano i viveri e i cittadini sono ridotti alla fame, alla quale si aggiunge il contagio della peste. La difesa non può più essere portata avanti ad oltranza ed il senato invia un’ambasceria al campo nemico per trattare la resa. Alarico promette di ritirare l’esercito da Roma a prezzo di 6000 libbre d’oro, 30000 d’argento, degli ostaggi e una grande quantità di oggetti preziosi, di seta, di porpora e aromi.

L’ingente riscatto fu pagato e i barbari levarono il campo e passarono in Etruria nel dicembre del 408.

Ma Alarico non veniva a patti solamente per ritirarsi da Roma, chiedeva ancora di essere riconosciuto dell’impero e restava nel suo campo in Etruria in attesa che fossero concluse le trattative iniziate con la corte di Ravenna e che quindi gli fosse conferito il grado di gran maestro delle milizie d’occidente. Onorio troppo ardito nella sua miseranda debolezza, rifiutò e per avere aiuti riconobbe signore d’occidente l’usurpatore Costantino III.

Superbia barbarica

Alarico riceve gli ambasciatori di Roma
Alarico riceve gli ambasciatori di Roma

I barbari Visigoti, grazie al loro vasto numero, riuscirono a circondare completamente l’Urbe e a tagliarle le scorte di cibo. La carestia costrinse presto i Romani a chiedere condizioni di resa. Gli ambasciatori del Senato, quando si presentarono al cospetto di Alarico, cominciarono, con un linguaggio elevato e al tempo stesso intimidatorio, ad ammonirlo di non umiliare i Romani con condizioni dure o disonorevoli: la loro furia, quando erano spinti alla disperazione, poteva essere terribile e il loro numero enorme. “Più l’erba è fitta, più è facile tagliarla”, fu la risposta beffarda di Alarico. Il capo barbaro indicò infine il riscatto che avrebbe accettato per risparmiare la città: “Tutto l’oro e l’argento della città, sia di proprietà dei singoli che dello Stato; tutti i beni mobili ricchi e preziosi e tutti gli schiavi che potessero dimostrare di avere il diritto al nome di barbaro”. Gli ambasciatorii, stupiti, chiesero con tono indignato: “Se queste, o re, sono le tue richieste, cosa intendi lasciarci?”. “Le vostre vite“, rispose il conquistatore.

Il riscatto di Roma e il pepe

Il riscatto fu in seguito notevolmente modificato e quindi ridotto: “5000 libbre d’oro, 30.000 d’argento, 4000 vesti di seta, 3000 pezzi di stoffa scarlatta e 3000 libbre di pepe”. Quest’ultimo articolo era molto usato nella cucina romana ed era diventato largamente diffuso nel Tardo Impero. Non era più solo un semplice oggetto di lusso ma un ingrediente di largo consumo e continuava ad essere molto costoso, poiché veniva importato dall’India. Alarico, secondo una stima di Forbes, prese come parte del suo bottino più di 5000 libbre (più di due tonnellate) di pepe. Charles Merivale, storico inglese, nel confrontare la condizione di Roma in questo periodo con la sua antica ricchezza e grandezza, stima che la doratura del tetto del tempio capitolino superasse di gran lunga l’intero importo del riscatto, e che esso fosse quattrocento volte inferiore a quello (cinque miliardi di franchi) richiesto alla Francia dai prussiani nel 1871. Per quanto contenuto potesse essere, i romani riuscirono a coprire l’intera somma solo adottando le misure più straordinarie. Le immagini degli déi furono prima spogliate dei loro ornamenti d’oro e di pietre preziose e infine le statue stesse furono fuse.

 

Alarico, re dei Visigoti. Illustrazione di Janboruta (http://civilization-v-customisation.wikia.com)
Alarico, re dei Visigoti. Illustrazione di Janboruta (http://civilization-v-customisation.wikia.com)

Secondo assedio di Roma (409)

Alarico, rafforzatosi con soccorsi di nuove schiere condotte in Italia da Ataulfo, suo cognato, ricondusse l’esercito contro Roma. Occupò il porto di Ostia dove si trovavano i granai che approvvigionavano Roma. Il senato ed il popolo, già vedendo imminente il rinnovarsi della fame che aveva straziato la città l,anno precedente, vennero subito a patti, piegandosi alle pretese di Alarico che volle fosse dichiarato deposto dall’impero Onorio e conferita la podestà imperiale a Prisco Attalo, prefetto della città, da cui egli doveva ricevere l’ambito titolo di mastro delle milizie occidentali.

Moneta di Prisco Attalo recante al rovescio la leggenda INVICTA ROMA AETERNA, "Invitta Roma Eterna"
Moneta di Prisco Attalo recante al rovescio la leggenda INVICTA ROMA AETERNA, “Invitta Roma Eterna”

Prisco Attalo (409)

E cosi avvenne. Prisco Attalo fu dal senato romano eletto imperatore e come tale, creò Alarico supremo comandante delle milizie imperiali. Ma mentre Alarico si attendeva di avere in Attalo un docile strumento della sua volontà, questi tentò invece di costituirsi indipendente e di far prevalere la volontà sua su quella del grande generale, che da lui nominato, egli credeva e voleva fosse a sé veramente soggetto.

Scoppiarono dunque fra l’imperatore e il generale aperte inimicizie. Onorio intanto se ne restava chiuso a Ravenna e chiedeva ed aspettava aiuti da Costantino di Gallia e dal nipote Teodosio II, imperatore d’oriente. Alarico si era avvicinato col suo esercito a Ravenna ed essendo ormai in pieno con Attalo  lo proclamò pubblicamente deposto dall’impero, riconoscendo nuovamente quale imperatore Onorio, col quale riprese trattative di pace. Ma le trattative furono dalla corte di Ravenna condotte perfidamente. Una forte schiera di milizie guidata da Saro, vecchio ufficiale di Stilicone invase il campo gotico, ne uccise molti e altrettanti ne fece prigionieri, tornando a Ravenna.

Terzo assedio e sacco di Roma (410)

Destruction da The Course of Empire, Thomas Cole, 1836
Destruction da The Course of Empire, Thomas Cole, 1836

Alarico volle vendicarsi su Roma di questo assalto. Una terza volta condusse gli eserciti sotto le mura della città. Il senato si deliberò ad un estrema difesa, ma al coraggio non rispondevano le forze e dopo breve assedio per tradimento fu aperta al nemico la Porta Salaria.

La notte del 24 agosto dell a 410 le soldatesche gotiche irruppero nella città eterna e per tre gioni vi condussero strage e saccheggio. Sazio di vendetta, ricco di un grosso bottino, Alarico uscì dalla capitale abbandonata nello squallore, conducendo con sé prigioniera Galla Placidia, sorella dell’imperatore Onorio.

Il sacco di Roma nelle fonti

L’Impero d’Occidente cadde in preda ai disordini, perché sorsero molti tiranni. Dopo la morte di Stilicone, Alarico, capo dei Goti, inviò un’ambasciata ad Onorio per trattare la pace; ma senza risultato. Avanzò verso Roma e la pose d’assedio; e schierando un grande esercito di Barbari sulle rive del Tevere, egli efficacemente impedì il trasporto di tutte le provviste nella città dal Porto. Dopo che l’assedio durava da un po’ di tempo, ed erano avvenute nella città terribili devastazioni a causa della carestia e della pestilenza, molti degli schiavi, e la maggior parte dei barbari che erano all’interno delle mura, disertarono per passare dalla parte di Alarico.

[Sozomeno, Storia Ecclesiastica, Libro IX, Capitolo 6]

Si dice che mentre avanzava verso Roma, un pio monaco lo esortò a non compiacersi nel perpetuare tali atrocità, e a non rallegrarsi più delle stragi e del sangue. A costui Alarico rispose: ‘Non vado avanti per questa strada di mia volontà; ma c’è qualcosa che mi spinge irresistibilmente ogni giorno, dicendo: ‘Procedi a Roma, e devasta quella città.’

[Socrate, Storia Ecclesiastica, Libro VII, Capitolo 10]

Quelli tra i senatori che ancora aderivano alla superstizione pagana, proponevano di offrire sacrifici in Campidoglio e negli altri templi; e certi Etruschi, convocati dal prefetto della città, promisero di scacciare i barbari con tuoni e fulmini; si vantavano di aver compiuto un’impresa simile a Narnia, una città della Toscana, presso la quale Alarico era passato dirigendosi a Roma, e non aveva preso. L’evento, tuttavia, dimostrò che da queste persone non si poteva trarre alcun vantaggio per la città. La gente dotata di buon senso sapeva che le calamità che questo assedio comportava per i romani erano segni dell’ira divina inviata per castigarli per il loro lusso, la loro dissolutezza e i loro molteplici atti di ingiustizia verso gli altri, così come verso gli stranieri.

[Sozomeno, Storia Ecclesiastica,Libro IX, Capitolo 6

Il Sacco di Roma
Il Sacco di Roma

Alarico tornò sui suoi passi, andò a Roma e la prese a tradimento. Permise a ciascuno dei suoi seguaci di impadronirsi di quanto poteva delle ricchezze dei Romani e di saccheggiare tutte le case; ma per rispetto verso l’apostolo Pietro, comandò che la chiesa grande e molto spaziosa eretta intorno alla sua tomba fosse un asilo

[ aṡilo s. m. [dal lat. asylum, gr. ἄσυλον (ἱερόν), propr. «(tempio) dove non c’è diritto di cattura (σύλη)»]. – 1. a. Immunità concessa anticamente a chi (schiavo fuggitivo, delinquente, prigioniero di guerra) si rifugiava in luogo sacro (edificio, recinto, bosco o monte consacrato alla divinità) o presso una cosa sacra (altare, statua degli dei, ecc.); costituiva un diritto (diritto d’a.) riconosciuto non solo presso i popoli primitivi, ma anche presso quelli più progrediti, e in seguito accettato anche dalla Chiesa cristiana a favore di coloro che, indiziati per qualche reato o già colpiti da condanna, si fossero rifugiati in una chiesa (a. ecclesiastico, tuttora vigente nel diritto canonico, ma abolito dalle legislazioni civili del sec. 19°). Fonte: Treccani.it ] . Questa fu l’unica causa che impedì l’intera demolizione di Roma.

[Sozomeno, Storia Ecclesiastica, Libro IX, Capitolo 9]

Alarico apparve davanti alla tremante Roma, pose l’assedio, diffuse la confusione e fece irruzione nella città. Prima però ordinò che tutti coloro che si erano rifugiati nei luoghi sacri, specialmente nelle basiliche dei santi Apostoli Pietro e Paolo, rimanessero inviolati e indisturbati; permise ai suoi uomini di dedicarsi al saccheggio quanto desideravano, ma ordinò che si astenessero dallo spargimento di sangue…

[Orosio,La storia contro i pagani, libro VII, capitolo 39]

Il terzo giorno dopo essere entrati in città, i barbari se ne andarono spontaneamente. Avevano, è vero, bruciato un certo numero di edifici, ma anche questo incendio non era così grande come quello che era stato causato per caso nel settecentesimo anno dalla fondazione di Roma. Infatti, se rivedo la conflagrazione prodotta durante gli spettacoli di Nerone, suo stesso imperatore, questo successivo fuoco, provocato dall’ira del vincitore, non reggerà sicuramente il confronto con il primo, che fu acceso dalla sfrenatezza del principe. Né ho bisogno in un paragone di questo genere di menzionare i Galli, i quali, dopo aver bruciato e saccheggiato la città, si accamparono sulle sue ceneri per quasi un anno intero. Inoltre, per togliere ogni dubbio che al nemico fosse permesso di agire in questo modo per castigare la città superba, sfrenata e blasfema, si può notare che i suoi siti più magnifici, nei quali i Goti non poterono appiccare il fuoco, furono distrutti in questo momento da un fulmine.

[Orosio,La storia contro i pagani, libro VII, capitolo 39]

Questa lugubre calamità è appena terminata e voi stessi siete testimoni di come Roma, che comandava il mondo, rimase stupita all’allarme della tromba gotica, quando quella nazione barbara e vittoriosa prese d’assalto le sue mura e si fece strada attraverso la breccia. Dov’erano allora i privilegi della nascita e le distinzioni di valore? Tutti i ranghi e i gradi non erano allora livellati e promiscuamente raggruppati? Ogni casa era allora una scena di miseria e ugualmente piena di dolore e confusione. Lo schiavo e l’uomo nobile si trovavano nelle stesse condizioni, e ovunque il terrore della morte e del massacro era lo stesso, a meno che non si possa dire che lo spavento faceva più impressione su coloro che avevano il maggior interesse a vivere.

[Lettera del Teologo Pelagio ad una donna di nome Demetrias, citata in William Jones, Ecclesiastical history, in a course of lectures, Vol. 1,  – G. Wightman, Paternoster Row and G. J. McCombie, Barbican, 1838, p. 421] 

La voce mi muore in gola e i singhiozzi interrompono le parole mentre detto. La città che aveva conquistato l’universo intero cade sotto l’occupazione nemica, anzi muore di fame prima che di spada: è un miracolo che se ne siano trovati alcuni pochi da far prigionieri. Una fame arrabbiata ha spinto i cittadini a cibi nefandi: si sono sbranati l’un l’altro, membro a membro; le mamme non hanno risparmiato i propri figli ancora lattanti e si sono rimesse nel ventre quei bimbi che poco prima ne erano usciti. «Di notte Moab è stata presa; e di notte il suo muro crollò» (Is 15,1). «O Signore, le genti hanno invaso la tua eredità, hanno profanato il tuo Tempio santo, hanno ridotto Gerusalemme a guisa d’un capanno campagnolo. Hanno dato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli dell’aria, le membra dei tuoi santi alle bestie della terra: hanno versato il loro sangue, come fosse acqua, intorno a Gerusalemme, e non v’era chi li seppellisse» (Sal 78,1-3). «Chi potrà dire con semplici parole il massacro avvenuto in quella notte e i morti che ci sono stati? Può, uno, aver lacrime sufficienti per un dolore come quello? Un’antica città, per secoli dominatrice del mondo, va in rovina. Per le strade e nelle case si trovano sparsi alla rinfusa cadaveri a non finire: ovunque ci si specchia nella morte» (Virgilio, Eneide II, 361-365 e 369).

(Girolamo, Epistola 127.)

Chi crederebbe che Roma, costruita con la conquista di tutto il mondo, sia crollata, che la madre delle nazioni sia diventata anche la loro tomba; che le coste di tutto l’Oriente, dell’Egitto, dell’Africa, che un tempo appartenevano alla città imperiale, siano state riempite dalle schiere dei suoi servi e delle sue serve, che ogni giorno riceviamo in questa santa Betlemme uomini e donne che un tempo erano nobili e abbondanti di ogni tipo di ricchezza, ma che ora sono ridotti in povertà? Non possiamo alleviare queste sofferenze: tutto ciò che possiamo fare è solidarizzare con loro e unire le nostre lacrime alle loro. […] Non c’è una sola ora, né un solo momento, in cui non stiamo soccorrendo folle di fratelli, e la quiete del monastero si è trasformata nel trambusto di una foresteria. E questo è talmente vero che dobbiamo chiudere le porte o abbandonare lo studio delle Scritture, da cui dipendiamo per tenere le porte aperte. […] Chi potrebbe vantarsi quando la fuga dei popoli d’Occidente e i luoghi santi, affollati come sono di fuggiaschi squattrinati, nudi e feriti, rivelano chiaramente le devastazioni dei barbari? Non possiamo vedere ciò che è accaduto senza piangere e gemere. Chi avrebbe mai creduto che la potente Roma, con la sua sicurezza incurante delle ricchezze, sarebbe stata ridotta a tali estremi da aver bisogno di riparo, cibo e vestiti? Eppure, alcuni sono così duri di cuore e crudeli che, invece di mostrare compassione, fanno a pezzi gli stracci e i fagotti dei prigionieri e si aspettano di trovare dell’oro in coloro che non sono altro che prigionieri.

(Girlamo, Epistole, da Henry Wace e Philip Schaff, Nicene and Post-Nicene Fathers of the Christian Church  – Charles Scribner’s Sons, 1912, pp. 499–500.)

Il Gallo di Onorio

The Favorites of the Emperor Honorius, John William Waterhouse, 1883
The Favorites of the Emperor Honorius, John William Waterhouse, 1883

In quel tempo si narra che in Ravenna all’imperatore Onorio un eunuco, evidentemente un addetto al pollaio, gli annunziasse che Roma era perita. A questa notizia egli esclamando, “Ma come!”, disse, “Se ha appena mangiato dalle mie mani!”. Egli aveva infatti un gallo di dimensioni enormi, che aveva insignito del nome di Roma, alché l’eunuco, comprendendo le sue parole, disse che era Roma, la città ad esser perita per mano di Alarico. E l’imperatore, con un sospiro di sollievo, disse “Amico, temevo che il mio pollo Roma fosse morto!”. Tanta infatti tramandano fosse l’inettitudine dell’imperatore.

Procopio, La guerra vandalica (III.2.25-26)

Da Roma, Alarico si volse verso la Campania, saccheggiò le campagne e le città di quella fertilissima e ricca regione e avanzò fino all’estrema punta d’Italia.

Morte di Alarico

Alarico, capo dei Visigoti
Alarico, capo dei Visigoti

Dopo aver dunque ritirato i suoi guerrieri da Roma, Alarico li condusse verso sud. Mentre avanzavano lentamente, ammassavano sempre più nei loro carri, il ricco bottino delle città e delle ville della Campania e di altri distretti dell’Italia meridionale. Nelle ville dei nobili romani, i rozzi barbarici si abbandonavano ai banchetti attingendo a piene mani dalle dispense e dalle cantine ben fornite e bevevano da preziose coppe il famoso vino di Falerno.
Alarico condusse i soldati di Iris all’estremo sud dell’Italia, con l’intenzione di attraversare lo Stretto di Messina per raggiungere la Sicilia e, dopo aver sottomesso quell’isola, portare le sue conquiste nelle province dell’Africa. I suoi progetti furono vanificati da una una terribile tempesta che distrusse le navi ed impedì l’impresa. Alarico si ritrasse a Cosenza dove colto da malattia, morì nel 410.

Lo strano funerale di Alarico

Con religiosa cura i suoi seguaci assicurarono il corpo del loro eroe contro le profanazioni dei suoi nemici. Gli diedero infatti una strana sepoltura: Il piccolo fiume Busento  nel Bruttium settentrionale (odierna Calabria), fu deviato dal suo corso con grande fatica e nel letto del torrente fu costruita una tomba, nella quale fu posto il corpo del re, con le sue armi, i suoi gioielli e i suoi trofei. quindi ricondussero le acque nel loro letto originario e, affinché non si sapesse mai il punto esatto della tumulazione, i prigionieri che erano stati costretti a fare quel lavoro furono tutti messi a morte. Il conquistatore di Roma giace da secoli sotto le acque correnti del Busento.

 

Ataulfo

Ataulfo, capo dei Visigoti, Raimundo de Madrazo. 1858. (Museo del Prado, Madrid).
Ataulfo, capo dei Visigoti, Raimundo de Madrazo. 1858. (Museo del Prado, Madrid).

Il governo delle milizie e il titolo di re furono dati ad Ataulfo, cognato di Alarico. Il condottiero dei Goti potè concludere con Onorio quella pace che Alarico aveva chiesto invano ed essere riconosciuto generale romano per la guerra di riconquista delle Gallia.

A questo risultato certamente cooperò assai Placidia, sorella dell’imperatore, che come prigioniera custodita nel campo gotico, ma che aveva ispirato ad Ataulfo ambizioso di potersi così considerare, sposando la stessa Placidia, fratello dell’imperatore romano.

Ataulfo condusse quindi gli eserciti dalla Campania in Gallia nel 412. Costantino già era stato vinto nel 411 da un altro avversario, Costanzo; a questo erano succeduti altri usurpatori che furono vinti da Ataulfo. Il generale gotico si gloriò d’aver ricondotto le Gallia all’obbedienza e nell’unione dell’impero. A Narbona, nel 414, furono celebrate le sue nozze con Galla Placidia.

Mentre nel 409 l’Italia era sconvolta dalle guerre di Alarico, schiere di Vandali, Svevi, Alani, attraverso la Gallia erano arrivate oltre i Pirenei e avevano occupato la Spagna.

Ataulfo, pacificatore della Gallia, passò a guerreggiare contro gli invasori dell’Iberia, ma a Barcellona per una rivolta militare, fu ucciso nel 415. Il suo disegno suo fu condotto compimento da Vallia, cui pervenne la corona gotica. Vinse gli Alani e i Vandali di Spagna, quindi, al di qua dei Pirenei, i Visigoti. Ottenuto da Onorio il dominio nella Gallia meridionale fondò un nuovo regno visigotico, con Tolosa per capitale Vallia e rimandò allora corte di Ravenna Galla Placidia, vedova di Ataulfo, che dopo il sacco di Roma aveva sofferto tante sventure.

Restituita dunque al fratello, Placidia sposò in seconde nozze Costanzo, il vincitore di Costantino di Gallia, cui era stato dato il titolo di conte e di patrizio. Onorio non aveva figli e nel 421 associò nell’impero il cognato Costanzo col titolo di Augusto.

Ma fu la compartecipazione nel regno fu breve: dopo pochi mesi, Costanzo moriva, lasciando due figli nati da Placidia, cioè Valentiniano ed Onoria. Placidia nelle drammatiche vicende vissute e nel dominio condiviso con Ataulfo, aveva mostrato ardimento ed ambizione virile, quindi di fatto esercitò una forte influenza sul fratello, ma eccitò nella corte di Ravenna gelosie e Onorio, sempre debole e sospettoso, le si fece nemico.

Morte di Onorio (423)

Testa di Onorio, Roma, Musei Capitolini
Testa di Onorio, Roma, Musei Capitolini

Placidia coi figli, fu costretta ad abbandonare la corte, cercando rifugio a Costantinopoli, dove regnava Teodosio II. Breve tempo dopo la sua partenza, Onorio morì nel 423, Principe debole e dappoco, divenuto una marionetta di inetti e perfidi consiglieri, svigorì e avvili la potestà imperiale in mezzo agli intrighi dei cortigiani, privò l’impero del suo più forte difensore, Stilicone, vide e patì senza un generoso tentativo di riscossa l’Italia, percorsa e ripercorsa dai barbari, e infine permise che Roma venisse saccheggiata.

Morì lasciando l’impero occidentale smembrato e in estremo, non avendo figli, la sua triste triste eredità fu di aver posto le condizioni per una nuova guerra civile di successione.

Giovanni Primicerio (423)

Sin da subito, l’imperatore d’oriente, accampando i suoi diritti, voleva tentare di mettere nella sua dipendenza l’impero d’occidente. A prevenire questo pericolo, i dignitari della corte di Ravenna si affrettarono di proclamare successore di Onorio, Giovanni che teneva l’ufficio di primicerio dei notari che vale quanto essere il primo segretario di stato.

Teodosio II, proclamando che la successione spettava a Valentiniano, figlio di Costanzo e di Placidia, lo rimandò con la madre in Italia, sotto la scorta di un esercito comandato da Aspare. Giovanni era pronto a muovere guerra contro il generale bizantino, chiamando a soccorso un esercito barbarico comandato da Ezio, figlio di un capitano gotico che aveva sposato una nobile donna italica. Ma prima che i soccorsi giungessero, Giovanni fu catturato dal nemico ed ucciso.

Valentiniano III (423-455)

Cosi Valentiniano III fu innalzato a imperatore d’occidente; aveva appena cinque anni e in suo nome suo regnò la madre Placidia la quale ad evitare il pericolo di perdere potere e dominio, una volta che il figlio fosse cresciuto, ne svigori l’animo riversandogli un imbelle educazione, ne logorò le forze in una dissoluta giovinezza, con studiata calcolo, rendendolo incapace di esercitare autonomamente il potere.

Passaggio dei Vandali in Africa

Regno dei Vandali - segnato in blu - (clicca sull'immagine per ingrandire)
Regno dei Vandali – segnato in blu – (clicca sull’immagine per ingrandire)

Ezio che era venuto a soccorso di Giovanni Primicerio, quando venne a sapere della sua morte, passò immediatamente ai servigi di Galla Placidia, presso la quale acquistò favori e il grado di mastro delle milizie d’occidente.

Si ritiene che la responsabilità di uno dei maggiori danni subiti misero regno di Valentiniano III, cioè la perdita dell’Africa, sia da imputare o ad Ezio o alle scelte sbagliate di Galla Placidia.

Quella provincia annessa all’Italia, era governata dal conte Bonifazio, che era stato un generale di Onorio. Ezio, che con lui era in rivalità, con vari intrighi, si studiò di farlo cadere in disgrazia presso Placidia e fingendo che Bonifazio macchinasse una rivolta, riuscì ad ottenere che fosse richiamato dal suo governo.

Ma in pari tempo, Ezio mandava messaggi a Bonifazio esortandolo a non arrendersi a quel richiamo: il ritorno infatti sarebbe stato un abbandonarsi a morte sicura.

Ingannato da cosi perfidi consigli, Bonifazio si decise veramente alla rivolta, respinse l’invito di Placidia, raccolse esercito per difendere la sua provincia e non potendo da solo bastare alla guerra, si mosse a cercare aiuti presso i Vandali di Spagna.

Dopo che il re Vallia coi suoi Visigoti aveva rivalicato i Pirenei, i Vandali erano tornati a riprendersi il dominio nella Spagna e la signoreggiavano per gran parte sotto il governo del valoroso re Gunterico.

A questi Bonifazio mosse invito di passare in Africa, ma Gunterico mori e nell’impresa gli succedette Genserico.

I Vandali già miravano alla conquista della fertile e prospera regione dell’Africa romana, e la chiamata di Bonifazio fu l’occasione propizia di un’impresa già meditata.

Il condottiero vandalo raccolte milizie in numero di più di cinquantamila uomini, passò lo stretto di Gibilterra nel 429 e una volta sul suolo africano, ingrossò di nuove genti il suo esercito: gente che mal tollerava il dominio romano o sorte in armi per ragioni religiose contro i cattolici, che fieramente avevano perseguitato le sette eretiche formatesi nella chiesa africana.

Ma la disegnata alleanza di Bonifazio coi Vandali non ebbe effetto, anzi non appena Genserico fu sulla sponda africana, subito si trovò in guerra con chi improvvidamente lo aveva chiamato.

Dalla corte di Ravenna al campo di Bonifazio in Africa, per opera di amici e intermediari, furono date e scambiate spiegazioni e giustificazioni che posero in luce il vicendevole inganno e deplorando l’una e l’altra parte i funesti consigli dettati dall’ira si riconciliarono.

Placidia, vedendo il grave pericolo che tanto ricca provincia fosse strappata all’impero, mandò milizie in soccorso a Bonifazio ed altri ancora ne sollecitò a Teodosio d’oriente.

Bonifazio, comandante le forze imperiali, cominciò la guerra per opporsi a quell’invasione che dal suo invito, se non ebbe vera causa, ricevette almeno il pretesto impellente.

Ma ormai la provincia africana era per massima parte occupata dai Vandali, solo le più grosse e meglio munite città – Cartagine, Ippona, Cirta – resistevano.

Ad Ippona, Bonitazio fu assediato e vi si difese per lungo tempo, poi rincuorato dall’arrivo di nuovi soccorsi dall’Italia, si avventurò in battaglia, ma fu vinto e sgombrò dalla provincia, restandovi Genserico a continuare la guerra contro gli ultimi baluardi della difesa romana.

Bonifazio fu benevolmente ricevuto a Ravenna, ebbe onori dalla reggente, col grado di mastro delle milizie occidentali.

Il favore di Bonifazio presso la corte, dove in nome di un imbelle o viziato fanciullo governava le sorti dell’impero la scaltra Placidia, di fatto oscurava il peso politico di Ezio, che allora si trovava in Gallia. Audacemente Ezio prevenne la propria rovina; adunò infatti un esercito barbarico, in gran parte composto da Unni, ed egli, barbarico condottiero, venne in Italia ad affrontare Bonifazio.

Il governo imperiale era decaduto a tanta debolezza che lasciò l’Italia divampare nella guerra fra i due cortigiani rivali.

Venuti a battaglia, Bonifazio ebbe la vittoria ma ferito da una lancia morì nel 432.

Ezio, dopo breve tempo ritornò con nuove schiere barbariche e vinti gli ultimi suoi oppositori, ottenne da Placidia il grado di mastro delle milizie ed il titolo di patrizio, massimo onore nell’impero.

Effetti del sacco di Roma sul paganesimo

L’immane disastro che aveva colpito la città imperiale produsse una profonda impressione sia sui pagani che sui cristiani in tutto il mondo romano. I primi sostenevano che queste calamità indicibili si erano abbattute sullo Stato romano a causa dell’abbandono da parte del popolo del culto degli dei déi loro antenati, sotto la cui protezione e favore Roma era diventata la padrona del mondo.

I cristiani, invece, vedevano nella caduta della Città Eterna il compimento delle profezie contro la Babilonia dell’Apocalisse. Quest’ultima interpretazione della spaventosa calamità acquistò credito in mezzo al panico e alla disperazione dei tempi. I templi delle divinità un tempo popolari furono abbandonati dai loro fedeli, che avevano perso la fede in essi, visto che non potevano salvare neppure sé stessi né proteggere i loro santuari dalla spoliazione. “Di conseguenza”, dice Merivale, “il potere del paganesimo fu completamente spezzato, e le indicazioni che occasionalmente ci vengono fornite della sua esistenza sono rare e insignificanti. Il cristianesimo si impossessò nella sua eredità abbandonata da esso. I cristiani occuparono i templi, trasformandoli in chiese”.

(Libera rielaborazione da Storia Romana di Igino Gentile, 1885 e da “Ancient History, Greece and Rome” di Philip Van Ness Meyers, Toronto, 1901)

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Gli Unni in questo periodo erano governati da Attila, "il flagello di Dio". Il ritratto di questo fiero e selvaggio condottiero viene di solito dalla tradizione così dipinto. I suoi lineamenti portavano il segno della sua origine orientale. Aveva una testa grande, una carnagione scura, occhi piccoli e profondi, un naso piatto, pochi peli al posto della barba, spalle larghe e un corpo corto e squadrato, di forza energica ma di forma sproporzionata. Si dice che quest'uomo comandasse a suo piacimento un esercito di oltre mezzo milione di uomini. Quando ricevette dal figlio di Clodio l'invito a interferire negli affari della Gallia, Attila stava già meditando di invadere sia l'Impero d'Occidente che quello d'Oriente; ma la prospettiva di un alleato in Gallia, con l'opportunità di attaccare successivamente l'Italia da ovest, era troppo favorevole per essere trascurata. Una marcia di seicento miglia portò gli Unni fino al Reno. Attraversato questo fiume, continuarono la loro avanzata, saccheggiando e bruciando qualsiasi città si trovasse sul loro cammino. I Visigoti sotto Teodorico, unendosi ai Romani sotto Ezio, incontrarono gli Unni presso Orléans. Attila si ritirò verso Chalons, dove, nel 451, si combatté una grande battaglia che salvò la civiltà dell'Europa occidentale. Attila iniziò l'attacco. I Romani lo affrontarono coraggiosamente e una carica dei Visigoti completò la disfatta dei selvaggi. Ezio non si spinse oltre la vittoria, ma permise agli Unni di ritirarsi in direzione dell'Italia. Il "flagello" prima attaccò, prese e rase al suolo Aquileia. Poi invase l'intero Paese, risparmiando solo coloro che si erano preservati la vita consegnando le proprie ricchezze. Fu a questa invasione che Venezia dovette la sua ascesa. Gli abitanti, fuggiti all'avvicinarsi degli Unni, trovarono nelle isole delle lagune che si affacciava sull'Adriatico un porto sicuro. Attila morì poco dopo (453) per lo scoppio di un vaso sanguigno e con la sua morte l'impero degli Unni cessò di esistere.

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