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NUMA POMPILIO: UN PO’ RE, UN PO’ PAPA

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Romolo, il primo re, e suoi guerrieri non hanno mogli: quindi decidono di invitare i vicini, i Sabini, a una festa. Chiudono le porte, fanno ubriacare gli uomini, poi li uccidono e si tengono le loro donne. Tito Tazio, re dei Sabini, dichiara allora guerra ai Romani, conflitto che dura fino a quando le Sabine stesse pacificano le parti. Tito Tazio e Romolo condivideranno quindi la regalità per cinque anni. Alla sua morte, Tito Tazio viene solennemente sepolto sul monte Aventino.

Livio racconta anche la morte di Romolo: in un turbine di nubi e lampi, fu innalzato al cielo: è l’Apoteosi sua e del futuro di Roma.

Interregno

Alla morte di Romolo la città parve divisa sulla scelta di un successore. La sovranità ritornò cosi al popolo, essendo la monarchia romana non ereditaria, ma elettiva. I Sabini erano in diritto di eleggere il nuovo monarca tra di essi, ma i Romani non potevano soffrire l’idea di dare il trono ad uno straniero. In questa situazione i Senatori vollero rimpiazzare il Re governando ciascuno a vicenda per cinque giorni, godendo in questo spazio di tempo di tutti gli onori e dei privilegi della sovranità. Dunque il senato, diviso per decurie, tenne il potere (interregno, anno 716), affidando periodicamente la cosa pubblica ad un suo rappresentante, detto interrè.

Questa nuova forma di governo sussistette per un anno, ma i plebei vedendo che questo sistema di trasferimento del potere non faceva che moltiplicare i loro disagi, chiesero sempre più insistentemente un mutamento della situazione. Il Senato fu cosi costretto a fare una scelta, ed elesse come Re, finché i voti dell’assemblea popolare non lo avrebbero poi ratificato, un sabino di Curete, di grande saggezza, chiamato Numa Pompilio, genero di Tito Tazio.

Numa Pompilio (a 615–672) Anno 38 dalla Fondazione di Roma

Numa Pompilio al Louvre, di Jean Guillaume Moitte

La scelta di Numa come nuovo sovrano, fu generalmente approvata dal popolo, anche perché egli era nato il 21 aprile, proprio il giorno in cui venne alla luce anche Roma. Egli si curò di mitigare e rendere più civile, per mezzo della religione e degli ordinamenti della pace, i costumi dei Romani, fiero popolo bellicoso. Numa Pompilio, aveva allora circa 40 anni, ed era un personaggio già celebre per la sua pietà, per la sua giustizia e moderazione e per la sua vita esemplare. Istruito nelle scienze e della filosofia dei Sabini, viveva ritirato in Curese, contento di una modesta condizione e non aspirando ad onori più elevati.

Accettò la dignità che gli veniva offerta suo malgrado. Dalla gioia che procurò al popolo la notizia che Numa aveva accettato l’incarico, si sarebbe creduto che fosse stato dato a tutti un Regno, piuttosto che un Re. Nessun uomo ora poteva più essere adatto di lui al ruolo di governo, in un momento in cui il regno, composto da differenti e piccoli stati recentemente conquistati, non era ancora davvero unito. C’era bisogno di un capo il quale potesse mitigare la ferocia di quei popoli, con leggi sagge e con buoni regolamenti ed infondere così a tutti, col proprio esempio, la concordia e le virtù sociali.

Il re appena eletto consultò gli auguri, e assieme ad uno di questi salì al Tempio di Saturno ai piedi del Campidoglio, dove Numa, seduto su una pietra, mirava a sud fino a dove poteva giungere lo sguardo, al fine di accertare se vi fosse qualche impedimento alle sue opinioni, decisioni e prospettive.

Istituzioni religiose

Ispirato dalla ninfa Egeria, divina Camena, che lui raccontava scendesse ogni notte dall’Olimpo per dargli istruzioni (e chissà se solo questo) e che divenne poi sua sposa, istituì i primi sacerdozi ed ordinò il culto romano, a cui prepose il collegio dei quattro Pontefici presieduto dal Pontefice massimo. Creò tre grandi sacerdoti: uno per Giove, l’altro per Marte, il terzo per Quirino, che nominò rispettivamente Flamine Diale, Marziale e Quirinale. Per interpretare i segni celesti, significazione della volontà divina, formò il collegio degli Auguri. Per il culto del fuoco sacro di Vesta ordinò il collegio delle quattro Vestali, e per il culto di Marte Gradivo, il collegio dei dodici sacerdoti Salii, custodi del sacro scudo di Marte e degli altri undici scudi fatti a somiglianza di quello (scudi ancili).

A questi aggiunse il collegio dei Fetiali, cui erano affidate la dichiarazione di guerra e la conclusione di pace e di alleanza a nome del popolo romano. Fondò il tempio di Giano, italica divinità simboleggiante il tempo. Ordinò l’anno lunare in 355 giorni ripartiti in 12 mesi. Formò i collegi o corporazioni degli artefici, stabilì i giorni dei mercati, dei sacrifici e delle feste.

Per incoraggiare l’agricoltura divise tra le persone più povere del popolo, le terre che Romolo aveva conquistate in guerra e abolì la distinzione che esisteva tra i Romani ed i Sabini, forzandoli a viver insieme e ad abbracciare ciascuno lo stato che gli conveniva.

Conservò la pace; il tempio di Giano, che doveva stare aperto solo quando si fosse in tempo di guerra, durante il suo regno fu sempre chiuso. Infuse nell’animo del popolo sentimenti miti e pii, insegnando il rispetto dei giuramenti e della proprietà col culto del dio Termine. I popoli confinanti, ammirando una così giusta e pia comunità di cittadini, non li provocarono mai con le armi.

Numa, dopo un pacifico regno di quarantatré anni e in vecchiaia assai tarda, circa 83 anni, finì i suoi giorni, lasciando la nuova città, già prima rafforzata con le armi, ora consolidata e fiorente con le opere di pace. Nel suo testamento chiese, contro il costume del tempo, che il suo corpo fosse sepolto in un urna di pietra e che i suoi libri, dodici de quali erano scritti in latino ed altrettanti in greco, fossero allo stesso modo messi al suo fianco in un’altra urna.

Le vestali

Ritratto scultura della Vergine Vestale Massima (Vestalis Maxima), II secolo, Roma, Museo delle Terme di Diocleziano.

Nato ad Alba Longa, l’ordine delle vestali sarebbe stato trasferito a Roma durante il regno di Numa. Queste sacerdotesse vergini che vegliavano il sacro fuoco di Vesta, la Dea del Focolare, erano mantenute dallo Stato e risiedevano nell’Atrio di Vesta, vicino al Foro

In origine erano due, poi divennero quattro e infine sei. Compivano un sacerdozio di trent’anni: dieci anni di apprendistato, dieci anni di pratica e dieci anni di insegnamento. Coloro che infrangevano il loro voto di castità venivano sepolte vive in tombe anonime, un pratica spietata che era particolarmente ingiusta nei casi (non rari peraltro) di stupro. 

 Il loro compito principale consisteva appunto nel mantenere vivo il fuoco sull’altare di Vesta, ed era loro proibito, sotto pena di morte, di attizzare in qualunque modo qualsiasi altra fiamma. 

Ecco, io ad esempio, la Virgo Vestalis Maxima – la vestale più anziana che era a capo di tutte le altre – me la immagino un po’ così: come lo scorbutico sergente Trudy Platt (interpretata da Amy Morton) della famosa serie televisiva statunitense “Chicago PD” ,

Nel caso in cui una Vestale sfortunata avesse commesso un tale reato, si sarebbe trovata in una posizione di poco peggiore di quella di colei che veniva sepolta viva: infatti in quest’altro caso veniva letteralmente aiutata a ravvivare la nuova fiamma sulla quale l’incauta aveva distolto le sue attenzioni; ce la buttavano dentro ad ardere viva. 

 Sebbene i doveri delle Vestali fossero rigidamente applicati, e l’abbandono del fuoco sacro fosse, in alcuni casi, punito con la condanna a morte di colei che fosse stata giudicata colpevole, esse godevano di alcuni vantaggi peculiari. 

Sebbene le loro azioni fossero sempre sotto stretto controllo, era loro permesso, in un certo senso, di avere delle volontà proprie; era loro infatti concesso, anche quando erano minorenni, di redigere il proprio testamento. 

Occupavano posti a sedere d’onore fra il pubblico, nei giochi pubblici; e se capitava loro di incontrare un criminale in custodia, avevano il privilegio di poterlo liberare dalle mani della polizia dell’epoca. 

 Tuttavia il ruolo di Vestale non fu molto ambito per le donne dell’epoca, come non lo sarà quello successivo delle monache medioevali, se non per vocazione, e in generale, le donne che prendevano i voti erano costrette dalle circostanze o dalla famiglia. 

Niente di diverso da quello che vedremo anche nell’Europa Cristiana.

Costituzione primitiva di Roma

Le tre tribù

Le genti di Romolo congiunte con i Sabini di Tito Tazio, stanziatisi in Roma, formarono il popolo romano: ad essi si aggiunse poi un terzo elemento, che si crede essere d’origine etrusca. La tradizione rappresenta Roma come una colonia d’Albalonga: ma all’indagine storica sembra più probabile che essa siasi formata dall’unione di tre popolazioni o tribù di diverse stirpi, le quali, stabilitesi sul territorio dei sette colli in tre comunità autonome e separate, confluirono poi a formare un solo stato, cioè la civitas romana.

Queste tre tribù (tribù primitive o di razza) sono: i Ranines, di stirpe latina, stanziati sul colle Palatino; i Tities, di stirpe sabina, stanziati sul Quirinale; ed i Luceres, che sembrano essere d’origine etrusca, sul Celio; sul colle Saturnio (Capitolino) sorgeva la rocca della comunità, e in questa pare che i Luceri fossero accolti per ultimi e vi avessero, per un certo periodo di tempo, una condizione inferiore di diritto. Le tre tribù presero la denominazione collettiva di Popolo Romano Quirite. Ciascuna tribù era presieduta da un tribuno e si divideva in 10 curie; la comunità era dunque formata da 30 curie.

Le curie

La curia è una divisione politica e amministrativa, con legami religiosi di un culto comune; è presieduta da un proprio capo, il curione, fiancheggiato da un’autorità religiosa, il flamine curiale. Capo dei trenta curioni è il curione massimo. Ciascuna curia si suddivide in 10 genti, che nel totale delle tre tribù arrivano ad essere 300.

Le genti

La gente, più che un’istituzione politica, sembra essere un’associazione naturale, formata da un gruppo di famiglie, che riconoscono un comune antenato o capostipite, e sono unite da un nome comune (nome gentilizio), dal culto e dai sacrifici ad una medesima divinità, e da un diritto di successione, nel caso di morte di un membro della gente o gentile, senza che egli avesse lasciato testamento e senza aver eredi a lui prossimi.

I cittadini che per nascita appartengono alle famiglie che compongono le genti, sono i “patrizi”. Il nome il significato di figli legittimi di un padre di famiglia, in un’ età in cui, a parte le famiglie d’origine pura, non v’erano se non famiglie d’origine servile o di clienti.

Era un ordinamento patriarcale, in cui ciascun padre di famiglia faceva parte del consiglio degli anziani o senato; da qui nacque la voce secondo la quale l’espressione “I padri” divenne sinonimo di senatori, e che rimase poi come tale anche quando la dignità di senatore più non richiedeva il titolo giuridico di padre di famiglia.

I patrizi erano dunque i membri delle famiglie componenti le genti delle curie e delle tribù; essi soli in origine formavano la cittadinanza, essi soli godevano dei pieni diritti nel rispetto politico, militare e religioso, com’è costume delle civiltà primitive, le quali sono esclusive e non riconoscono la pienezza dei diritti se non ai membri della cittadinanza stessa.

Perciò, il nome di patrizi valse a denotare gli antichi cittadini, discendenti dalle primitive tribù, in opposizione a nuovi elementi di cittadinanza, posteriormente aggiunti. Tuttavia i patrizi non formarono una casta chiusa; la qualità di patrizio nei primi tempi di Roma si aveva non soltanto per nascita, ma si otteneva anche per naturalizzazione, cioè quando per un voto delle genti riunite nell’assemblea delle curie, un individuo o una famiglia venissero ascritti ad una gente romana.

Clienti

Insieme coi patrizi, ma a questi subordinati con un diritto inferiore, nella primitiva comunità romana stavano i clienti; i patrizi erano protettori o patroni deiclienti, il cui nome nella sua etimologia , dice « obbedienti o sottomessi ».

La clientela è un’antichissima istituzione italica: sembra trarre la sua origine da popoli vinti e tenuti in condizione subalterna da un popolo conquistatore, ovvero dall’emancipazione, onde i clienti sarebbero dunque i discendenti degli schiavi affrancati.

Fra il patrono ed il cliente vi erano dei rapporti o vincoli legali; il patrono doveva concedere al cliente la sua protezione in ogni faccenda pubblica o privata, rappresentarlo in tribunale, iniziarlo nella conoscenza del diritto, ammetterlo alla partecipazione del sepolcro.

Il cliente in cambio doveva rendere al patrono certi atti d’ossequio, aiutarlo nelle sue necessità; ad esempio, se il patrono fosse stato povero, quindi privo di mezzi per fornire una dote alla propria figlia, o per pagare il prezzo del riscatto se fosse caduto prigioniero in guerra, o per saldare le ammende se fosse stato condannato, ed anche per contribuire alle spese per il culto gentilizio.

Avevano poi, come obbligo reciproco, il non poter né accusare né deporre l’uno contro l’altro.
Questi mutui doveri erano sanciti dalla religione, infrangerli era considerato sacrilegio.

Poteri dello Stato

I poteri dello stato, nella primitiva costituzione romana, erano in mano a tre organi o membri: il re, il senato, l’assemblea del popolo.

Il re

Un augure dichiara re Numa Pompilio dopo l’oracolo del volo degli uccelli, acquaforte di Bernhard Rode 1768-69. Numa, con il volto coperto, è dichiarato re dall’indovino dopo il parere favorevole degli dei rivelato dal volo degli uccelli.

La monarchia in Roma non era eriditaria, come in Grecia, ma elettiva; era un’ autorità conferita dal popolo, al quale, morto il re, tornava nuovamente la sovranità. Quando il trono era vacante si costituiva un interregno provvisorio, per procedere all’elezione d’un nuovo sovrano.

Ufficio degli interrè era la convocazione e la presidenza dell’assemblea popolare elettorale, alla quale veniva proposto il candidato. Il popolo non aveva un pieno diritto di libera elezione, ma poteva solo accettare o rifiutare il candidato proposto.

Eletto il re, si richiedeva l’approvazione degli Dei, mediante la consultazione dei segni celesti; e quindi seguiva il conferimento della regia potestà mediante nuovo voto dell’assemblea convocata dal re stesso, ossia mediante la legge curiata. Il re era dunque un cittadino, a cui dal popolo veniva delegato il potere amministrativo ed esecutivo a vita, senza responsabilità; il re era magistrato del popolo romano. La potestà regia comprendeva: il potere militare, essendo il re capo dell’esercito; il potere giudiziario, sia che il re stesso decidesse sulle dispute e i crimini, con sanzione penale, sia che a ciò delegasse i suoi rappresentanti come giudici; il potere religioso, poiché, come rappresentante del popolo romano presso la divinità che l’aveva riconosciuto, il re celebrava i sacrifici dello stato.

Spettava al re la convocazione e la presidenza dell’assemblea popolare e del senato. Come appannaggio godeva d’una parte del territorio comune. Portava le insegne reali, cioè i fasci colle scuri, portati dai dodici littori, simbolo del diritto di vita e di morte, la sedia d’onore, o curule, e la toga ornata d’un lembo di porpora. Non c’erano altri veri magistrati ad affiancare il re, salvo i funzionari subalterni cui il re avesse delegato qualcuna delle sue attribuzioni.

Questi potevano essere: il tribuno dei celeri, o comandante della cavalleria; il prefetto della città, rappresentante dell’autorità in assenza del re in guerra; i duumviri ed i questori per l’amministrazione della giustizia. Il re non era obbligato da un codice di leggi scritte, ma esercitava i poteri secondo la tradizione o il costume dei nobili.

Il senato

Il re fiancheggiato da un consiglio degli anziani, o senato, eletto dal re stesso fra i padri di famiglia più anziani. Romolo nominò prima 100 senatori, a i quali poi, dopo l’unione coi Sabini, ne aggiunse altri 100; più tardi, sotto altro re, il numero dei senatori fu aumentato a 300, e si divideva in 30 decurie. Il senato formava il consiglio reale, cui, secondo il costume, doveva, negli affari di stato, essere consultato dal re .

I Comizi curiati

L’assemblea del popolo si componeva delle 30 curie riunite (Comizi curiati). Era dunque formata dai cittadini delle curie, cioè dai patrizi, ossia dal popolo in senso ristretto; è dubbio se vi prendessero parte i clienti. Le attribuzioni o competenze dell’assemblea erano:

  1. Elettorali, per la nomina del re, e quindi assai raramente esercitate, essendo il re nominato a vita
  2. Legislative
  3. Decisionali in termini di guerra e di pace

L’assemblea delle curie era raccolta anche per la naturalizzazione o ammissione nelle genti, che è quanto dire per il conferimento della cittadinanza, e per altri atti religiosi e civili. L’assemblea si
adunava in una parte del Foro romano detto comizio; i cittadini votavano ciascuno nella propria curia, e per curie si raccoglievano i voti, il cui totale era di 30 e la maggioranza di 16.

Per le attribuzioni del senato ed i poteri dell’assemblea, si potrebbe paragonare la monarchia
romana elettiva ad una monarchia costituzionale, nel senso che i due corpi politici avevano il
compito di limitare il potere reale.

L’esercito

L’esercito, come fu ordinato da Romolo, si componeva di 3000 fanti, con lo stesso contingente fornito da ciascuna delle tre tribù, sotto il comando di tre tribuni militari; a questi sono da aggiungersi 300 cavalieri o celeri, scelti in numero di 10 per ciascuna curia, ed ordinati in 10 squadroni o turme di 30 uomini ciascuno, comandati dal tribuno dei celeri.

Gli Auspici

La ninfa Egeria detta a Numa Pompilio le leggi di Roma, Ulpiano Checa, 1886.

È un principio generale e costante nel diritto pubblico romano che ogni atto intrapreso dal magistrato a nome del popolo sia in città, sia fuori, venga di fatto auspicato, cioè debba essere iniziato dopo che Giove, supremo dio dello stato, debitamente consultato secondo il rito prescritto, abbia con segni celesti dato il suo assenso.

La consultazione della volontà divina non ha per scopo di chiedere o provocare una predizione del futuro, ma solo di sapere se Giove concede o neghi il suo assenso ad un determinato atto pubblico. Il diritto di consultare la volontà divina è proprio solo dei magistrati, presso i quali gli auguri stanno come assistenti conoscitori ed interpreti dei segni secondo il rito e la disciplina religiosa.

Si credeva che la significazione della volontà divina si rivelasse specialmente attraverso due modi, cioè mediante fenomeni atmosferici, tuoni, lampi, o per mezzo del volo e del canto degli uccelli.

Un corvo a sinistra segnalava eventi che sembravano nefasti, ma se lo stesso uccello se andava a destra, ciò conferiva al tutto un luce più positiva; e siccome questi uccelli hanno l’abitudine di vagare a destra e a manca, ecco che gli auguri potevano dichiarare che c’era qualcosa da predire da entrambe le parti: sventura o fortuna.

Si usava anche consultare la divinità per mezzo delle sacre galline, a questo scopo appunto allevate, traendo auspicio dalla maggiore o minore avidità con cui esse mangiavano il becchime offerto.

Gli auspici erano tratti anche dalla consultazione delle viscere delle vittime sgozzate, e questo era ufficio proprio degli aruspici, il cui diritto ebbe molta importanza nelle faccende politiche romane e il cui esercizio era proprio dei magistrati; l’idoneità a tale diritto si riteneva propria soltanto dei patrizi come prerogativa dalla volontà divina, e per questa prerogativa si credevano essi quasi d’un diverso sangue rispetto al popolo vero e proprio. Di qui la profonda divisione fra patrizi e plebe, e la lotta che conseguirà.

Numa Pompilio iniziò la sua carriera sul trono utilizzando una matita e un righello: tracciò diverse linee rette intorno a Roma, per segnarne i confini. Le pose sotto la tutela di una divinità, chiamata Terminus, ed eresse dodici pietre a pochi passi l’una dall’altra, a intervalli regolari lungo la frontiera. Queste venivano visitate una volta al mese da dodici ufficiali, chiamati Fratres Arvales, nominati per lo scopo.

Numa, amava le passeggiate solitarie, e durante una di queste, il caso lo portò in una grotta dove incontrò la ninfa Egeria e fu in quel luogo che incominciarono i suoi rendez-vous segreti e magici con la dea, amandola e spesso chiedendole consigli politici.

I privilegi dei sacerdoti non erano poi molti; uno di questi consisteva principalmente nel diritto di indossare l’Apex – un berretto fatto di legno d’ulivo – e la Laena, una sorta di soprabito romano, ispido su entrambi i lati, e indossato sopra la toga, come un cappotto. Al Flamen era proibito apparire in pubblico senza il suo Apex, che non poteva essere tenuto in testa senza delle corde; ma tale era la severità dei regolamenti, che un certo Sulpicio fu privato del suo sacerdozio, in conseguenza del fatto che il suo cappello ufficiale, che era leggero come una piuma, gli era saltato via dalla testa nel mezzo di un sacrificio.

Numa aggiunse, inoltre, una sorta di compagnia di ballo al suo ordinamento ecclesiastico, istituendo dodici Salii, o sacerdoti danzanti, il cui compito era quello di zompettare in determinate occasioni, nel corso delle principali celebrazioni pubbliche.

“Il sodalizio dei Salii si diceva istituito da Numa per onorare e custodire, confuso tra altri 11, uno scudo caduto miracolosamente dal cielo, quale segno divino della futura potenza militare di Roma. I Salii, eletti fra i patrizi, erano consacrati a Marte e a Quirino, che celebravano con danze di tipo guerresco. Il 1° marzo i Salii portavano in processione per la città i sacri scudi (ancilia), battendo le lance su di essi e cantando l’antichissimo Carmen saliare. La festa culminava il 19 marzo, primo giorno delle Quinquatrie. In ottobre si svolgevano cerimonie simili fino all’armilustrio (19 ottobre), quando le sacre armi erano riposte.” (Fonte Treccani.it)

Morte di Numa

Numa Pompilio visse fino all’età di ottantadue anni, quando ebbe la beatitudine di morire in pace così come aveva vissuto. Si raccontano alcune storie sulle cerimonie funebri che seguirono la morte di Numa; e si dice che i senatori fecero da portatori alla sua bara, in segno di apprezzamento per le misure che Numa stesso aveva introdotto. Si racconta anche che egli fece collocare nella sua tomba una copia, su papiro o su foglie di palma, delle sue opere, in ventiquattro libri; ed è certamente un’idea felice quella di seppellire un autore con i suoi scritti: infatti se essi hanno provocato una noia mortale agli altri, alla fine il defunto potrà cogliere in pieno il beneficio delle loro profonde proprietà soporifere.

Si dice anche alla morte di Numa, Egeria pianse a tal punto, che la Dea Diana la trasformò in una fonte, nel bosco di Aricia, sui Monti Albani, dove la ninfa si rifugiava per sfogare il suo dolore. Oggi una giovane ragazza può stare con un vecchio di 80 anni solo per un motivo: i soldi. Ma a quel tempo, le ninfe belle e sempre giovani invece, cadevano letteralmente ai piedi di monarchi anziani e un po’ bigotti. Anche i gusti femminili in fatto di uomini sono molto cambiati da allora!

Numa e Pitagora

 Numa Pompilio sarebbe stato addirittura discepolo di Pitagora. Vuoi saperne di più? Clicca sul pulsante qui di seguito e leggi

150px Bundesarchiv Bild 183 R1202 328 Peter Hacks
Peter Hacks (1928 – 2003) drammaturgo, poeta e saggista tedesco, uno dei più noti drammaturghi della DDR (Repubblica Democratica Tedesca)

Il drammaturgo tedesco Peter Hacks scrisse una commedia intitolata Numa 1969-1971 , che revisionò poi radicalmente nel 2002. In un saggio Numa o il Mezzo (1977) l’autore ha spiegato il significato della sua rivisitazione dell’antica storia di Numa.

La repubblica socialista italiana ha urgente bisogno di un nuovo presidente e segretario generale del Partito. Tuttavia, poiché il litigioso Politburo non riesce a mettersi d’accordo sul candidato che i suoi due stupidi rappresentanti considerano il più incapace, viene eletto senza ulteriori indugi Numa Pompilio, un semplice giudice di pace in un piccolo paese sprovvisto di una vera disposizione a prendere decisioni: ora egli viene improvvisamente chiamato a Roma per prendere in mano gli affari di stato. Ma le cose si svilupperanno diversamente dal previsto, perché Numa si batte per un governo dittatoriale…

La commedia è una delle sue opere principali e ha un carattere satirico, da farsa; Hacks prende in giro le lotte di potere politico in uno stato socialista. Numa è un eroe per lui, che viene prima scelto come candidato per realizzare un compromesso politico e poi guida con sicurezza la sua carica di “intermediario”. Nella versione rivista, sono stati mantenuti gli aspetti critici del socialismo, ma sono stati eliminati gli aspetti ottimistici della versione originale. Numa non è più un uomo equilibrato, che afferma diversità e contrasti, ma un politico che si impegna a favore di una dittatura. Nella revisione, che incupisce il carattere originariamente allegro del pezzo, si rivela l’atteggiamento rassegnato dell’autore dopo il fallimento della DDR.

Nel prossimo episodio – > : Tullo Ostilio è il leggendario terzo re di Roma. Succede al re Numa Pompilio. Conduce la guerra contro Albalonga, durante la quale si svolge l’episodio della lotta fra gli Orazi contro i Curiazi. Alba, vinta viene rasa al suolo e i suoi abitanti vengono deportati sul colle romano del Celio, aumentando la popolazione della città. Di conseguenza, i nobili albani possono sedere nel Senato romano, che all’epoca riuniva le più importanti famiglie.

(Libero adattamento e riduzione da Storia romana: dalla fondazione di Roma alla caduta dell’Impero d’Occidente. Iginio Gentile, 1885, e da Compendio della storia romana dalla fondazione di Roma fino alla caduta dell’impero romano in Occidente del dott. Goldsmith, 1801, con successive aggiunte, aggiornamenti e integrazioni)

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