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INFANZIA, ADOLESCENZA E ISTRUZIONE NELL’ANTICA GRECIA

 

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Le tradizioni matrimoniali nell'antica Grecia variavano a seconda della città-stato e la maggior parte delle fonti, sia letterarie che materiali, riguardano le classi superiori. Nelle famiglie dell'alta borghesia, il matrimonio era visto come un modo per il padre della sposa di aumentare la ricchezza e la posizione sociale della famiglia, e l'amore era raramente un fattore determinante. Le donne si sposavano di solito all'inizio dell'adolescenza - anche se questo non era il caso di Sparta - e gli uomini si sposavano intorno ai venticinque anni.
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I greci erano ossessionati dell’adulterio, il che spiega in parte la loro diffidenza verso le donne e il loro atteggiamento assai duro, e a volte perfino crudele, nei confronti dell’infanzia, poiché vivevano nel costante timore di avere figli illegittimi (l’altra paura era quella del disonore o di avere figli malati). La legislazione greca in materia di eredità e successione era assai rigida e la eventuale presenza conclamata di figli avuti da relazioni extraconiugali, poteva causare lunghi procedimenti legali e rendere tutte le procedure assai più complicate di quanto già non fossero.

Nascere nell’Antica Grecia

Le donne dell’antica Grecia rimanevano spesso incinte, vista la mancanza di metodi efficaci di contraccezione, e diciamo che non c’era nemmeno una mentalità orientata in questo senso, o comunque al controllo delle nascite. Era considerato normale che le donne partorissero più volte nel corso della loro vita. La giovane età in cui venivano mandate a nozze (14 o 15 anni), garantiva teoricamente un lungo periodo di fertilità, tenendo sempre presente la speranza di vita dopo un parto e quella degli stessi neonati. Un nucleo familiare composto da quattro o cinque figli era un fatto abbastanza comune.

Bassorilievo con donna partoriente proveniente, Ostia Antica, ora a Londra.

Il parto

Il parto era un evento da quale gli uomini erano completamente esclusi (o si autoescludevano). Ci si affidava alle levatrici, quasi una categoria professionale in Grecia, e al resto delle donne dell’oikos, come alle amiche, e si partoriva esclusivamente in casa.

I medici maschi venivano chiamati solo nelle emergenze. Come è facilmente comprensibile, sia la partoriente che il bambino erano esposti a infezioni, perdita di sangue e complicazioni varie che potevano portare alla morte sia della madre che del neonato, o addirittura di entrambi.

Fenarete: la mamma di Socrate

Il grande filosofo Socrate, campione e martire del libero pensiero (“una vita senza ricerca, non è degna di essere cresciuta” diceva) era un figlio del popolo: suo padre era uno scultore, Sofronisco e sua madre si chiamava Fenarete, ed era una levatrice. Molte delle testimonianze sulla vita e il pensiero di Socrate, ci vengono dai dialoghi scritti dal suo più grande discepolo: Platone. I dialoghi sono qualcosa a metà tra la rievocazione storica e drammatica, l’opera teatrale e la ricerca filosofica vera e propria. In uno dei dialoghi più celebri, il Teeteto – dal nome del giovane interlocutore di Socrate – il filosofo ci parla di sua madre, che era una levatrice. Nell’intento di descrivere il modo di fare filosofia del suo maestro – cioè di tracciare un parallelo tra l’attività del saggio che stimola gli altri a cercare la verità in maniera autonoma e la “maieutica”, l’arte di aiutare le donne a partorire i figli – Platone ci fornisce anche preziose testimonianze sulle tecniche utilizzate dalle ostetriche dell’antichità, che, come Fenarete, operavano con un misto di conoscenze empiriche e “farmaci e incantesimi” per stimolare la partoriente o placarne i dolori. Sebbene fossero riconosciute quasi come una categoria professionale, la loro figura aveva più a che fare con la magia e lo sciamanesimo che con la medicina scientifica vera e propria. Vale la pena rileggere il celeberrimo passo del Teeteto in cui viene descritta mirabilmente la “maieutica”: sia quella delle levatrici, atta a far partorire i bambini alle donne, che quella socratica, finalizzata invece a far partorire agli uomini (anche Socrate rende omaggio al maschilismo greco) le loro idee.

Socrate: – Hai le doglie, caro Teeteto, doglie che rivelano non vacuità, ma pienezza.

Teeteto: – [. .. ] Non Io so, Socrate: io non dico se non ciò che provo.

Socrate: – [. .. ] Non hai sentito dire ch’io sono figlio di una molto brava levatrice, Fenarete?

Teeteto: – Si che l’ho sentito dire!

Socrate: – E che esercito la stessa arte, l’hai sentito dire?

Teeteto: – Per niente!

Socrate: – Sappi, dunque, che è così! Ma non andare a dirlo agli altri. Compagno mio, è a loro, infatti, nascosto ch’io posseggo quest’arte: e, non sapendolo, non dicono questo di me; dicono, invece, che sono uno tra i più stravaganti uomini e che non faccio altro che mettere in imbarazzo la gente. Questo l’avrai sentito dire, no?

Teeteto: -Sì

Socrate: -Te ne debbo dire il perché [. .. ] Ricordati tutto quello che fa una levatrice, e più facilmente capirai quel che voglio dire. Sai che nessuna donna finché abbia possibilità di concepire e di generare compie questo mestiere di far partorire altre donne: tale mestiere fanno solo quelle che non possono più generare [ .. ; ] E non è pure evidente, necessario anzi, che siano le levatrici a riconoscere meglio di ogni altro se una donna e o no incinta? [. .. ] E non sono le levatrici che, mediante i loro farmaci e incantesimi, sono capaci di svegliare o attutire i dolori se vogliono, e affrettare il parto alle donne che stentano, e, se lo ritengono bene, fare abortire quando il feto non e ancora maturo? [. .. ] E non hai notato anche il fatto ch’esse sono espertissime nel combinar matrimoni, abili come sono a riconoscere quale uomo e quale donna debbano unirsi per generare i figli migliori? [… ] Rifletti: appartiene o no alla stessa arte curare e raccogliere i frutti della terra e riconoscere in quale terra quale pianta e quale seme vada seminato? [ … ] Ora, la mia arte di maieutico in tutto e simile a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che essa aiuta a far partorire uomini e non donne e provvede alle anime generanti e non ai corpi, Non solo, ma il significato più grande di questa mia arte e ch’io riesco, mediante essa, a discernere, con la maggior sicurezza, se la mente del giovane partorisce fantasticheria e menzogna, oppure cosa vitale e vera. E proprio questo io ho in comune con le levatrici: anche io sono sterile, sterile in sapienza; e il rimprovero che già molti mi hanno fatto che io interrogo gli altri, ma non manifesto mai, su nulla, il mio pensiero, è verissimo rimprovero [. .. ] io stesso, dunque, non sono affatto sapiente ne si è generata in me alcuna scoperta che sia frutto dell’anima mia. Quelli, invece, che entrano in relazione con me, anche se da principio alcuni d’essi si rivelano assolutamente ignoranti, tutti, poi, seguitando a vivere in intima relazione con me, purché il dio lo permetta loro, meravigliosamente progrediscono, com’essi stessi e gli altri ritengono. Ed è chiaro che da me non hanno mai appreso nulla, ma che essi, da sé, molte e belle cose hanno trovato e generato. Certo è, invece, che causa del loro parto siamo il dio e io [. .. ] E se, poi, con alcuni il demone che sempre e in me mi vieta di unirmi, con altri, invece, lo permette e costoro tornano di nuovo fecondi. Ebbene, quelli che si uniscono a me patiscono anche in questo le stesse doglie delle partorienti: hanno appunto le doglie e giorno e notte sono pieni di irrequietezza molto più delle donne. Ora la maieutica ha il potere di svegliare e calmare tali dolori [ … ] Ve ne sono poi altri, Teeteto, che a mio giudizio non sono affatto gravidi: costoro riconoscendo che non hanno alcun bisogno di me con molta benevolenza li affido ad altri e, con l’aiuto della divinità, trovo molto facilmente con chi possano congiungersi traendone profitto. E così molti ne ho accoppiati a Prodico, molti ad altri sapienti e divini uomini [ … Ma tornando a te, Teeteto, che mi sembri gravido e che tu abbia le doglie] se, esaminando qualcuna delle tue risposte, ritengo che sia fantasticheria e non verità, e te la strappo via e te la butto, non t’inferocire [. .. ] Gia molti [ … ] hanno verso di me questo malanimo, tanto che son davvero pronti a mordermi se cerco di togliere via a loro qualche stupidaggine e non pensano ch’io faccio questo per benevolenza [ … ]

(Teeteto, 148 e-151 d).

 

L’Infanticidio

La morte del piccolo Astianatte

Per quanto aborrito anche allora, nell’antica Grecia si ricorreva di frequente all’infanticidio. Ci si augurava quasi sempre di avere un figlio maschio, perché significava avere un paio di braccia in più nell’azienda di famiglia ed era l’erede dell’oikos. Il poeta Esiodo scrive ne Le Opere e giorni:

Abbi un sol figlio maschio, che possa curare la casa,
perché nelle famiglie s’accresce così la ricchezza;
e quello invecchi e muoia, lasciando a sua volta un sol figlio.

Anche a piú figli Giove conceder potrebbe ricchezze:
quanti piú sono, è maggiore la cura, maggiore il provento. Un solo figlio maschio dunque o anche di più: nessuna figlia femmina, perché averne anche solo una era considerato un problema: quasi soltanto una bocca in più da sfamare e bisognava fornirle pure di una buona dote per darla in sposa!

Quindi, se il figlio era indesiderato, malato oppure ce ne erano già troppi, il kurios di un oikos poteva decidere di abbandonare il neonato. La cosiddetta “esposizione”: la pratica di lasciare in bambino appena nato in aperta campagna o in balia della corrente di un fiume, comunque in un luogo selvaggio e isolato. Il neonato era condannato a morire dunque di fame, di freddo o a diventare pasto per gli animali da preda.

La sensibilità morale a riguardo era molto diversa dalla nostra, perché si combatteva giorno dopo giorno contro la fame, la povertà e le malattie e non esistevano altri strumenti per il controllo delle nascite. La speranza di vita nell’antica Grecia era di circa 30 anni, soli 30 anni. Questo non vuol dire che non si arrivava alla vecchiaia, ma che la mortalità infantile e giovanile era talmente elevata, che l’aspettativa di vita media si attestava intorno a quell’età.

Mentre Dante a 35 anni poteva considerarsi “nel mezzo del cammin” della vita, un antico greco a 35 anni poteva ritenersi fortunato di esserci arrivato.

I greci, come tutti i popoli antichi, convivevano con l’idea della morte assai più di quanto non accada per noi oggi. La loro esistenza era davvero un “essere per la morte” ma tutto sommato ciò non bastava affatto a rendere questo fardello più sopportabile per loro.

Esposizioni celebri: Edipo, Paride, Atalanta, Ippotoo

Numerosi episodi presenti nella mitologia (e poi ripresi dal teatro e dalla letteratura) testimoniano che purtroppo, l’abbandono di minore (o meglio, di neonato) era una pratica molto diffusa nel mondo greco. Ecco i casi più famosi:

Edipo: Il più celebre di tutti. Laio, il padre di Edipo, dopo aver ricevuto la profezia che egli sarebbe morto per mano del figlio, dà ordine di abbandonare il neonato al suo destino. Ma il pastore incaricato dell’orribile atto, provando pietà per il piccolo lo salva dandolo in affidamento ad altri. Ciò darà inizio ad una inesorabile e tragica serie di eventi.

Paride: Anche qui c’è di mezzo una profezia. La regina della città di Troia, Ecuba, rimasta incinta, sognò di partorire una torcia che appiccava il fuoco alla città di Troia. Priamo, il re, consultò l’oracolo: la risposta fu che il nascituro avrebbero portato la rovina sulla città di Troia.  Priamo ordinò a un pastore di esporre il piccolo sul monte Ida, ma questi lo adottò invece come proprio figlio. Anche in questo caso, le conseguenze saranno devastanti: La Guerra di Troia.

Atalanta: Iaso (o Scheneo), rimase deluso quando la propria moglie partorì una bambina, decise perciò, senza tanti complimenti, di esporla sul monte Pelio. Ma qui un’orsa, inviata dalla dea Artemide, si prende cura di lei e la allatta. Atalanta sarà l’unica donna a partecipare alla spedizione degli Argonauti.

Ippotoo: Il più iellato di tutti. Figlio di una relazione clandestina fra Alope e Poseidone, la donna pensò bene di esporre il piccolo per nascondere la sua nascita a suo padre, Cercione (probabilmente si tratta dell’ennesimo atto di stupro camuffato da intervento divino, e la povera ragazza doveva sbarazzarsi del bimbo per evitare l’emarginazione e la morte). Anche qui un animale che non ha niente di meglio da fare (in questo caso si tratta di una cavalla), prende e allatta il piccolo; e anche qui, un pastore si trova a passare per caso, trova il neonato e decide di allevarlo. Cercione, scoprì comunque tutto, ordinò che la figlia venisse murata viva e che lo sfortunato bambino fosse esposto un’altra volta. Indovinate un po’? Bravi! Fu salvato da un altro pastore. Anni dopo Teseo fece fuori Cercione e mise sul trono Ippotoo, chiudendo definitivamente la faccenda.

Ci sarebbero altri casi da citare (ad esempio quello di Perseo, figlio di Danae, abbandonato – in questo caso insieme alla madre – rinchiuso in una cassa lasciata andare alla deriva sul mare, per ordine del nonno, Acrisio) ma l’elenco diverrebbe troppo lungo. 

Tutto ciò dimostra, come scrive la studiosa Eva Cantarella,  che «la coscienza sociale accettava [l’esposizione] senza problemi, e (nonostante la proposta di Aristotele di vietarla) continuò a essere praticata, al di là dell’epoca classica, anche in epoca ellenistica».

Il pubblico dei teatri e i lettori del V secolo a.C. non si scandalizzavano troppo di fronte a queste storie, perché si trovavano nella stessa situazione (assenza di strumenti di contraccezione, impossibilità a mantenere troppi figli, difficoltà o impossibilità a mantenere figlie femmine, impossibilità di mantenere figli malati) e vedevano tutti questi atti, ai nostri occhi moralmente esecrabili, come l’unico modo per amministrare l’oikos.

C’è da dire che comunque, almeno in apparenza, il mito e la letteratura condannano l’esposizione di neonati, attribuendola a personaggi talvolta mossi da intenti malvagi, oppure come unico metodo per “salvare” i propri figli da un nemico, affidandosi alla provvidenza degli dèi. Da notare che questi figli abbandonati, spesso si salvano in maniera rocambolesca e diventavano re o eroi, oppure portavano la rovina sù sé stessi e sul proprio regno.

Nell’uno e nell’altro caso sembra fosse un modo per lavarsi la coscienza:

Caso 1: – “Non preoccuparti di abbandonare il bambino! Vedrai che gli dèi lo salveranno, e lo faranno diventare un grande eroe come Teseo!”

Caso 2: – “Sbarazzati di quel bimbo senza tanti indugi! Ti ricordi la storia di Edipo? E quella di Paride? Questo infante porterà solo sfortuna! Credimi”

Lo stesso Platone, ritiene in qualche modo legittima questa pratica e il commediografo Menandro, inoltre, fa dire a uno dei suoi personaggi: «Non c’è nessuno più sfortunato di un padre, se non un padre che ha più figli».

Da notare inoltre che casi di esposizioni di bambini sono noti anche al di fuori dell’Ellade, si pensi alla vicenda di Mosè o a quella di Romolo e Remo, il che vuol dire che tutto il mondo antico era afflitto dagli stessi problemi.

 

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