< – Nelle puntate precedenti:
Le guerre sannitiche videro fronteggiarsi due nascenti potenze d’Italia, la Repubblica Romana, padrona del Lazio e poi della Campania, e la confederazione sannitica, cioé varie tribù del Sannio.La prima guerra sannitica è un breve conflitto intorno al 343/341 a.C. dC che rappresenta il primo passo di Roma fuori dal Lazio e la prima tappa della conquista romana dell’Italia. La seconda guerra sannitica fu la più lunga e difficile, coprendo oltre vent’anni, dal 327 al 304 a.C. Infine, la terza guerra sannitica, con una coalizione di vari popoli contro Roma, si estende tra il 298 e il 290 a.C. I sanniti furono alla fine sottomessi e Roma divenne la potenza dominante in Italia.
Cartagine e l’impero cartaginese
La prima fra le città fondate dai Fenici sulle diverse sponde del Mediterraneo, fu Cartagine, sulla costa settentrionale dell’Africa. Si pensa che la città abbia avuto i suoi inizi da un piccolo avamposto commerciale, fondato alla fine del IX secolo a.C., circa cento anni prima della leggendaria data della fondazione di Roma.
La posizione favorevole della colonia, su uno dei migliori porti della costa africana, diede alla città un vasto e lucroso commercio. Nel periodo che stiamo ora considerando era cresciuta fino a diventare una città imperiale, coprendo, con i suoi giardini e sobborghi, un distretto distribuito in un’area di circa 37 km. Non poteva contenere meno di 1.000.000 di abitanti.
Cartagine, da Total War: Rome 2
Un’impresa commerciale come quella della città madre,Tiro, e le imposte riscosse dalle città e dagli stati assoggettati – poiché trecento città libiche riconoscevano la sovranità di Cartagine e pagavano tributi al suo tesoro – l’avevano resa enormemente ricca.
Nel III secolo a.C. era probabilmente la città più opulenta del mondo.
Quando Roma ebbe esteso la sua autorità sull’Italia, Cartagine dominava, attraverso la colonizzazione pacifica o con la forza delle armi, su tutta la costa settentrionale dell’Africa, dalla Grande Sirte, cioè il Golfo, fino alle Colonne d’Ercole, e possedeva la maggior parte della Sicilia, così come la Sardegna, la Corsica, le Baleari, la Spagna meridionale e decine di isolette sparse qua e là nei mari vicini. Con tutte le sue sponde punteggiate dalle sue colonie e le fortezze, il nemico veniva spazzato via in ogni direzione dalle galee da guerra cartaginesi, il Mediterraneo occidentale era diventato un “lago fenicio”, in cui, come si vantavano i Cartaginesi, nessuno osava neppure lavarsi le mani senza la loro autorizzazione.
Governo e religione cartaginese
Il governo di Cartagine, come quello di Roma, era di forma repubblicana. In corrispondenza dei consoli romani, due magistrati, detti suffeti, stavano a capo dello stato. Il Senato era composto dai capi delle principali famiglie; i suoi doveri e i suoi poteri erano molto simili a quelli del Senato romano. Così equilibrata era la costituzione, e così prudente fu la sua amministrazione, che in seicento anni di storia cartaginese non si ebbe una sola rivoluzione.
La religione dei Cartaginesi era basata sull’antico culto cananeo di Baal o del Sole. A Moloch – altro nome per il dio del fuoco, – “che si rallegrava delle vittime umane e delle lacrime dei genitori” offrivano un tempo, sacrifici umani.
Roma e Cartagine a confronto
Queste due grandi repubbliche, che da più di cinque secoli stavano lentamente estendendo i loro confini e maturando i loro poteri sulle opposte sponde del Mediterraneo, era sul punto ora di iniziare una delle lotte più memorabili di tutta l’antichità: un duello che doveva decidersi fino all’ultimo scontro – con la fortuna che pendeva instabile ora per l’una, ora per l’altra parte – e che si protrasse per oltre cento anni.
Come avvenne nella contesa tra Atene e Sparta, così ora le due città rivali, con i loro alleati e sudditi, erano quasi pari per forza e per risorse. I Romani, è vero, erano pressoché privi di una flotta; mentre i Cartaginesi possedevano la potenza navale più grande e splendidamente equipaggiata che abbia mai pattugliato le acque del Mediterraneo. Ma sebbene i Cartaginesi fossero superiori ai Romani nelle guerre navali, essi erano di gran lunga loro inferiori negli scontri a terra. Il territorio cartaginese, inoltre, era ampiamente disperso, abbracciando estese coste e isole solitarie; mentre i possedimenti romani erano compatti e confinati in un’unica penisola facilmente difendibile.
Anche nell’organizzazione militare, gli eserciti cartaginesi erano formati principalmente da mercenari, mentre quelli di Roma erano reclutati in gran parte dai ranghi del popolo romano. E poi gli stati soggetti a Cartagine erano per lo più di una razza, lingua e religione diverse da quelle dei loro conquistatori fenici ed erano pronti, al primo disastro della città regnante, ad abbandonare la loro fedeltà; mentre gli alleati latini e le dipendenze italiche di Roma le erano strettamente imparentati per razza e religione, e così, per impulso naturale, la maggior parte di esse rimase fedele all’Urbe anche durante i periodi più bui della sua lotta contro la rivale.
L’inizio della guerra
Tra l’Italia e la costa dell’Africa si trova la grande isola della Sicilia, il cui punto più a settentrione, Torre Faro in provincia di Messina, è a soli 150 km circa da quello più meridionale, Portopalo di Capo Passero in provincia di Siracusa. All’inizio della prima guerra punica, (da Poeni, latino per Fenici, e quindi applicato dai Romani ai Cartaginesi, in quanto coloni fenici) i Cartaginesi possedevano tutta l’isola tranne un lembo della costa orientale, che era sotto il dominio della città greca di Siracusa.
Greci e Cartaginesi avevano condotto una lotta quasi ininterrotta per due secoli per il controllo dell’isola. I romani non vi avevano ancora messo piede. Ma essa era destinata a diventare teatro degli scontri più terribili tra gli armamenti dei due rivali. Pirro aveva previsto tutto. Quando si ritirò dall’isola, osservò: “Che bel campo di battaglia stiamo lasciando per i Romani e i Cartaginesi!”. Nell’anno 264 a.C., con un debole pretesto per dare protezione ad alcuni alleati, i romani arrivarono nell’isola. Durante la guerra contro Pirro, infatti, alcuni campani, che avevano prestato servizio come mercenari nell’esercito del re di Siracusa, rientrando in Italia, concepirono il progetto di impossessarsi della città di Messana, sullo Stretto di Sicilia. Uccisero i cittadini, si trincerarono nel luogo e cominciarono ad insediare il paese circostante con le loro bande di predoni.
Gerone, re di Siracusa, assediò i banditi nella loro roccaforte. I Mamertini, o “Figli di Marte” – perché così si definivano, – fecero appello ai romani per chiedere aiuto, basando le loro pretese di assistenza sul presunto fatto di comune discendenza dal dio della guerra. I romani avevano appena punito un’analoga banda di briganti campani che si era impadronita di Reggio, dalla parte italiana del canale. Voltarsi ora e prestare aiuto alla banda siciliana sarebbe stata la più grande incoerenza. Ma nel caso non avessero dato l’assistenza richiesta, era certo che i Mamertini avrebbero chiesto aiuto ai Cartaginesi; e così Messana sarebbe finita nelle mani dei loro rivali.
Quell’atto li impegnò in una carriera di conquista estera destinata a continuare finché le loro armi non avessero fatto il giro del Mediterraneo. I Siracusani e i Cartaginesi, per quanto fossero stati vecchi nemici e rivali, unirono le loro forze contro gli insolenti nuovi venuti. Gli alleati furono completamente sconfitti nella prima battaglia e l’esercito romano ottenne un punto d’appoggio sicuro sull’isola.
L’anno successivo entrambi i consoli furono posti a capo di formidabili eserciti per la conquista della Sicilia. Gran parte dell’isola fu rapidamente invasa e molte città abbandonarono la loro fedeltà a Siracusa e a Cartagine, divenendo alleate di Roma. Gerone, tiranno di Siracusa, vedendosi dalla parte dei perdenti, abbandonò la causa dei Cartaginesi e si alleò coi Romani, rimanendo per sempre loro fermo amico.
I romani costruiscono la loro prima flotta
La loro esperienza durante le passate campagne aveva mostrato ai Romani che se volevano far fronte con successo ai Cartaginesi dovevano essere in grado di incontrarli sul mare così come sulla terraferma. Non solo le navi cartaginesi insidiarono le città costiere siciliane che erano già nelle mani dei romani, ma discesero sulle coste dell’Italia, e le loro milizie poterono così devastare i campi e i villaggi, salpando con il loro bottino prima che fosse possibile l’inseguimento.
Per proteggere quindi le loro coste e scongiurare questi attacchi, i romani non disponevano di una flotta. I loro alleati greci ed etruschi erano infatti popoli marittimi e possedevano flotte considerevoli, che erano a disposizione dei romani. Ma queste navi non erano che triremi, galee con tre banchi di remi; mentre le navi cartaginesi erano quinqueremes, ovvero navi a cinque file di remi. I primi erano inutili per far fronte ai secondi, tale vantaggio gli derivava dal loro peso e altezza maggiori.
Così i romani decisero di costruire una flotta di quinqueremi. Caso volle che, poco prima, una galea cartaginese fosse naufragata sulle coste dell’Italia meridionale. Questa servì loro da modello. Si dice che nello spazio quasi incredibilmente breve di sessanta giorni, il legno ottenuto abbattendo gli alberi di un’intera foresta, fu impiegato per costruire una flotta di centoventi galee da guerra. Mentre costruivano queste navi, i soldati romani venivano addestrati ai doveri dei marinai, esercitandosi come rematori, seduti in ordine su file di panchine costruite a terra. Con la riva risuonante dei rumori del lavoro frettoloso sulle galee e affollata di gruppi di “rematori fittizi”, la scena doveva essere alquanto animata oltre che ridicola agli occhi degli stranieri. Eppure il tutto costituiva una faccenda molto seria.
I romani ottengono la loro prima vittoria navale (260 a.C.)
Il comando della flotta fu affidato al console Gaio Duillio. Questi incrociò lo squadrone cartaginese presso la città e il promontorio di Mylae (Milazzo), sulla costa settentrionale della Sicilia. Una sola precauzione diede la vittoria ai romani. Diffidando della loro capacità di eguagliare l’abilità dei loro nemici nel manovrare le loro navi, avevano provveduto ciascuna di esse di un ponte levatoio uncinato, lungo più di dieci metri e abbastanza largo da permettere a due persone di passarvi sopra di fianco. Si alzava e si abbassava per mezzo di pulegge fissate all’albero. Il nuovo congegno di abbordaggio fu chiamato Il corvo (in latino ‘corvus’) Le galee cartaginesi si calarono rapide sulle navi romane, pensando di trafiggere e affondare sfrontatamente con i loro rostri le strutture dall’aspetto goffo. Solo i ponti salvarono la flotta romana dalla distruzione.
Non appena una nave cartaginese si avvicinò abbastanza a una nave romana, la passerella fu lasciata cadere sulla galea in avvicinamento; la lunga punta di cui era armata l’estremità, perforando il ponte, inchiodò immediatamente insieme le navi. I soldati romani, correndo lungo il ponte, furono presto impegnati in un corpo a corpo con i loro nemici, tipo di combattimento in cui i primi erano sicuri di una facile vittoria. Furono catturate cinquanta galee cartaginesi; le restanti – c’erano centotrenta navi nella flotta – rifiutandosi saggiamente di precipitarsi nell’abbraccio terribile e fatale nel quale avevano visto i loro compagni rinchiusi, volsero la prua in fuga.
I romani avevano ottenuto la loro prima vittoria navale. La gioia a Roma era sconfinata. Ispirava le più sanguigne e splendide visioni di dominio e di futura gloria marittima.
Il Mediterraneo sarebbe dovuto rapidamente diventare un lago romano, nel quale nessuna nave avrebbe potuto viaggiare senza il consenso di Roma. Duillio fu onorato di un magnifico trionfo e il Senato ordinò che, quando passava di notte per la città, tornando a casa, fosse sempre scortato da uomini muniti di torce e accompagnato dalla musica. Nel Foro fu innalzata una splendida colonna commemorativa, la Colonna Duilia, “adornata con i rostri di bronzo delle navi che la sua saggia ignoranza e la sua goffa abilità gli avevano permesso di catturare”.
I romani portano la guerra in Africa
I risultati dello scontro navale a Mylae o Milazzo, incoraggiarono i romani a spingere la guerra con maggiore energia. Decisero di portare il conflitto in Africa. Un’immensa flotta cartaginese che contrastava il passaggio della squadra romana venne quasi annientata (Vicino al promontorio siciliano di Capo Ecnomo – oggi Poggio Sant’Angelo – nel 256 a.C.). I romani sbarcarono quindi vicino a Cartagine. Attilio Regolo, uno dei consoli che guidavano l’esercito d’invasione, mandò a dire a Roma di aver “sigillato con terrore le porte di Cartagine“. Alla fine, tuttavia, Regolo subì una schiacciante sconfitta e fu fatto prigioniero (i Cartaginesi erano in questo momento comandati da un abile generale spartano, Santippo, che, con un piccolo ma disciplinato gruppo di mercenari greci, era entrato al loro servizio). Una flotta che era stata inviata per portare via i resti dell’esercito in frantumi, fece naufragio in una terribile tempesta al largo delle coste della Sicilia e sulle spiagge dell’isola giacquero disseminati i relitti di due o trecento navi e i corpi di circa100.000 uomini. Imperterriti, nonostante il terribile disastro che aveva colpito la loro flotta da trasporto, i romani si misero al lavoro per costruirne un’altra e fecero una seconda discesa sulla costa africana.
La spedizione, tuttavia, non portò a termine nulla di importante; la flotta nel suo viaggio di ritorno fu quasi distrutta, appena al largo dell’Italia, da una tremenda tempesta. Le visioni di supremazia navale risvegliate tra i romani dalle splendide vittorie di Milazzo e ed Ecnomo venivano così improvvisamente dissolte da questi due successivi e spaventosi disastri che avevano colpito i loro armamenti.
La battaglia di Panormo (Palermo) – 251 a.C.
Per alcuni anni i Romani si astennero dal tentare di nuovo azioni ostili sul mare. La Sicilia divenne il campo di battaglia dove la guerra continuò, anche se con poco spirito da entrambe le parti, fino all’arrivo nell’isola del generale cartaginese Asdrubale (251 aC). Portò con sé centoquaranta elefanti addestrati alla guerra. Di tutti gli strumenti di morte che i soldati romani dovettero di volta in volta affrontare, nessuno nella storia dei legionari ispirò loro un terrore così incontrollabile come queste “bestie feroci”, come le chiamavano.
L’ira furiosa con cui questi mostri, essi stessi quasi invulnerabili ai dardi del nemico, travolsero con le loro proboscidi le file opposte, sballottando e calpestando i corpi delle loro vittime, era invero ben calcolata per ispirare un terrore grandissimo, ma erano anche un armamento sopravvalutato.
Sotto le mura di Panormo (Palermo), il console Metello attirò Asdrubale in una trappola. Fermò la terribile carica degli elefanti da guerra con scariche di frecce immerse nella pece fiammeggiante, che fecero sì che gli animali spaventati si precipitassero indietro e schiacciassero le file disordinate degli stessi Cartaginesi. Il risultato fu una vittoria completa per i romani, i quali, dopo la battaglia, costrinsero i conducenti degli elefanti, che vagavano per il campo in preda al panico, a catturare e calmare gli animali. Una volta in cattività, furono ftrasportati attraverso lo Stretto di Sicilia su enormi zattere e in numero di venti furono usati per celebrare il corteo trionfale di Metello. Dopo essere stati condotti per il Foro e per la Via Sacra, furono poi condotti al Circo e là trucidati in presenza della folla radunata.
Regolo e l’ambasciata cartaginese
L’esito della battaglia di Panormo scoraggiò i Cartaginesi, che mandarono un’ambasciata a Roma, per negoziare la pace o per un possibile scambio di prigionieri. Tra gli ambasciatori c’era Attilio Regolo, che dalla sua cattura, cinque anni prima, era stato tenuto prigioniero in Africa. Prima di partire da Cartagine aveva promesso di tornare se l’ambasciata non avesse avuto successo. Per il bene della sua stessa liberazione, i Cartaginesi supponevano che avrebbe consigliato la pace o almeno sollecitato lo scambio di prigionieri.
Ma si racconta, che al suo arrivo a Roma, consigliò la guerra invece della pace, rivelando allo stesso tempo al Senato la debole condizione di Cartagine; quanto allo scambio dei prigionieri, disse: “Che quelli che si sono arresi quando avrebbero dovuto morire, muoiano dunque nella terra che ha assistito alla loro disgrazia”. Il Senato Romano, seguendo il suo consiglio, respinse tutte le proposte dell’ambasciata; e Regolo, nonostante le lacrime e le preghiere di sua moglie e dei suoi amici, si allontanò da Roma e partì per Cartagine per andare incontro alla morte, che sapeva bene che i Cartaginesi, nella loro delusione e rabbia, gli avrebbero sicuramente inflitto. La tradizione continua raccontando come, al suo arrivo a Cartagine, fu rinchiuso in una botte piena di chiodi e poi lasciato morire di fame e dolore. Questa parte del racconto è stata screditata e si suppone che i particolari più pittoreschi siano stati aggiunti dai narratori.
Perdita di altre due flotte romane
Dopo il fallimento dell’ambasciata cartaginese, la guerra andò avanti per diversi anni per terra e per mare con molte vicissitudini. Alla fine, sulla costa della Sicilia, uno dei consoli, Claudio Pulcro, incontrò una schiacciante sconfitta in uno scontro marittimo a Drepana nel 249 a.C. Quasi un centinaio di navi della sua flotta andarono perdute. Il disastro causò il più grande allarme a Roma. La superstizione accrebbe le paure della gente. È stato riferito che poco prima della battaglia, quando gli auspici videro che i sacri polli non avevano mangiato, Claudio avesse dato l’ordine di farli gettare in mare, osservando irriverente: “In ogni caso, berranno”. L’immaginazione era libera di rappresentare quali ulteriori mali gli dei offesi avrebbero potuto infliggere allo stato romano.
I presagi più cupi avrebbero potuto trovare giustificazione negli eventi successivi. L’altro console infatti, era appena andato incontro ad un nuovo grande disastro. Stava procedendo lungo la costa meridionale della Sicilia con uno squadrone di ottocento mercantili e più di cento galee da guerra, le prime cariche di grano per l’esercito romano nell’isola.
Sorse allora una forte tempesta, lo squadrone fu fatto a pezzi, scagliato contro le rocce dalla furia degli elementi. Non una sola nave ebbe scampo. La costa fu disseminata dai rottami dei navigli e dai corpi per diverse miglia; numerosi mucchi di grano andarono perduti tra le onde.
Fine della prima guerra punica
La guerra durava ormai da quindici anni. Quattro flotte romane erano state distrutte, tre delle quali erano state affondate o fatte a pezzi dalle tempeste. Delle millequattrocento navi che erano andate perdute, settecento erano galee da guerra, tutte grandi e costose quinqueremi, cioè navi con cinque banchi di remi. Solo cento di queste erano cadute nelle mani del nemico; il resto era stato sacrificato alla potenza maligna e ostile delle onde. Questi duri colpi in sequenza, inflitti dalla mano invisibile del fato, furono sufficienti a far sbiancare i volti anche degli intrepidi romani.
Nettuno negava manifestamente ai “Figli di Marte” il regno del mare. Fu impossibile per i sei anni successivi dall’ultimo disastro, infondere un nuovo spirito di lotta negli animi. Nel 247 aC, Amilcare Barca, padre del grande Annibale, assunse il comando delle forze cartaginesi, e per diversi anni condusse con grande abilità la guerra nell’isola di Sicilia, facendo tremare anche Roma per la sicurezza con cui teneva saldamente di propri possedimenti italici. Ancora una volta i romani decisero di affidare la loro causa all’elemento che era stato loro così ostile.
Fu costruita ed equipaggiata una flotta di duecento navi, ma finanziata interamente da privati con fondi propri, senza far carico la popolazione, di nuove tassazioni per l’allestimento di un altro costoso armamento, da offrire come sacrificio all’insaziabile Nettuno. Il nuovo squadrone della marina romana, come possiamo chiamarlo, fu affidato al comando del console Gaio Lutazio Catulo. Questi si scontra con la flotta cartaginese al comando dell’ammiraglio Annone, presso le isole Egadi, infliggendo loro una schiacciante sconfitta (241 aC).
I Cartaginesi ora chiedevano la pace. Fu infine stipulato un trattato, i cui termini richiedevano che Cartagine rinunciasse a tutte le pretese sull’isola di Sicilia, consegnasse tutti i suoi prigionieri e pagasse un’indennità di 3200 talenti (circa 4.000.000 di euro attuali), un terzo dei quali doveva essere versato subito, il saldo invece, in dieci rate annuali. Così finì (241 a.C.), dopo ventiquattro anni, la prima grande lotta tra Cartagine e Roma.
Nel prossimo episodio – > : Cartagine si riprese rapidamente dalle sue difficoltà. Dal 237 a.C., Amilcare Barca conquistò la Spagna interna, mettendo così a disposizione del suo paese le miniere di ferro e stagno, la ricchezza agricola della Spagna, ma anche la possibilità di reclutare ottimi mercenari tra gli Iberi. Nel 221-220 a.C., Annibale Barca, figlio di Amilcare, attacca la città spagnola di Sagunto, alleata di Roma. Quindi intraprese una spedizione eccezionale per attaccare Roma via terra, passando per la Gallia meridionale e attraverso le Alpi. I romani sono sorpresi e vengono duramente battuti al Lago Trasimeno nel 217 a.C., poi a Canne nel 216 a.C